- L’Italia che ha scelto il governo più a destra della storia repubblicana sembra essere stata definitivamente raggiunta da quella che Svetlana Boym, letterata di Harvard, definiva in un libro di alcuni anni fa «un’epidemia globale di nostalgia».
- In queste elezioni, la promessa della destra è stata quella di cambiare tutto: non, quindi, interventi incrementali, ma una risposta alla voglia di cambiamento radicale di una parte del paese.
- Tuttavia, la meta che ha disegnato non è nel futuro, è in un confuso sistema di simboli inteso a evocare le radici, la tradizione da conservare. È in quel “Dio, patria e famiglia” che ricorre nei discorsi e nelle scenografie scelte dai tre leader per i loro messaggi.
«Tornare a essere orgogliosi di essere italiani»: è questo per Giorgia Meloni l’«obiettivo grande», la promessa di riscatto rivolta a chi l’ha sostenuta. La via dell’ultradestra al futuro passa da qui, dal riconoscimento di una desiderio identitario, dall’apertura di uno spazio di agibilità politica per affetti, vocaboli, gesti che sembravano ormai per sempre consegnati al passato.
L’Italia che ha scelto il governo più a destra della storia repubblicana sembra essere stata definitivamente raggiunta da quella che Svetlana Boym, letterata di Harvard, definiva in un libro di alcuni anni fa «un’epidemia globale di nostalgia»: «un anelito sentimentale a far parte di una comunità dotata di memoria collettiva, un desiderio struggente di continuità in un mondo frammentato».
È al passato che è stato volto lo sguardo in questa campagna elettorale. A un passato gravido di tragedia: il fascismo mai interamente archiviato, evocato con preoccupazione dalle forze progressiste, e i suoi epigoni, omaggiati ancora da Giorgia Meloni sul palco nel discorso della vittoria, quando ha ricordato «coloro che non ci sono più».
Un passato, però, anche rivisitato, spesso reinventato, e così rivalutato come luogo di speranza, di investimento utopico: un’età dell’oro che non è più davanti a noi, ma alle nostre spalle.
Negli ultimi anni, la nostalgia ha dato il tono all’offerta politica delle forze populiste di destra in molti paesi del mondo.
Dal “Make America Great Again” di Donald Trump, a “Reconquête”, il nome scelto da Éric Zemmour per promettere il ritorno alla grandeur francese; fino al “risollevare l’Italia” della stessa Meloni.
In queste elezioni, la promessa della destra è stata quella di cambiare tutto: non, quindi, interventi incrementali, ma una risposta alla voglia di cambiamento radicale di una parte del paese.
Tuttavia, la meta che ha disegnato non è nel futuro, è in un confuso sistema di simboli inteso a evocare le radici, la tradizione da conservare.
È in quel “Dio, patria e famiglia” che ricorre nei discorsi e nelle scenografie scelte dai tre leader per i loro messaggi.
L’obiettivo è una rottura non con il passato, ma con l’idea di progresso che ha sostenuto nell’ultimo secolo i progetti di emancipazione dalla diseguaglianza e dall’oppressione.
Gli avanzamenti sul terreno dei diritti delle donne, delle persone Lgbt, delle minoranze divengono, in questa prospettiva, “eccessi” da rimuovere per consentire la rifondazione di un ordine che ha radici in una presunta “natura”, in ciò che è senza tempo. Nella famiglia “naturale” e nella patria come grande famiglia.
Eppure la politica non può rinunciare alla prospettiva del futuro senza rinunciare a se stessa, al suo carattere di libertà e al fardello di responsabilità che viene dal guardare alle generazioni a venire. Mentre è proprio questo che esigerebbero le sfide del presente.
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