La sconfitta della premier resta improbabile, ma se dovesse succedere avrebbe un grosso peso politico: Marsilio non è un dirigente periferico, è uno di famiglia
Domenica gli abruzzesi e le abruzzesi sceglieranno il loro presidente. Non è poco, anzi è una scelta cruciale per il milione e trecentomila abitanti di questa regione, visti gli scarsi risultati dei cinque anni di governo di Marco Marsilio.
Così scarsi che negli ultimi giorni, fino a venerdì, non c’è un ministro dell’esecutivo di Giorgia Meloni che non abbia dovuto precipitarsi in qualche angolo di questa terra a promettere una mirabolante quota di bugdet del proprio dicastero; a patto che, si intende, gli abruzzesi votino disciplinatamente e conservino la «filiera» («filiera» è una recente parola magica nei comizi della destra, è stata usata come una clava anche nella campagna per le Marche di Francesco Acquaroli, adesso fa capolino anche in Emilia-Romagna, allude al fatto che la condizione di questa pioggia di soldi è che l’Abruzzo resti politicamente allineato al governo).
Ma è altrettanto evidente che in voto dell’Abruzzo non si fermerà in Abruzzo. Di nuovo, come in Sardegna ma ora molto più che in Sardegna, Meloni si gioca la faccia: deve vincere, non può perdere, perché la caduta sarda non diventi tendenza, regola, epifenomeno della crisi della sua coalizione. Crisi che sarebbe inequivocabile anche se il suo partito, Fratelli d’Italia, guadagnasse una buona affermazione elettorale.
L’Abruzzo è la circoscrizione che l’ha eletta in parlamento e a cui ha chiesto la conferma; e Marsilio non è un dirigente periferico recuperato all’ultimo momento da un contest dell’ultim’ora per cacciare Solinas: per la premier lui è uno di famiglia da sempre, uno che se non si fosse immolato a fare il pendolare Roma-Pescara-Roma oggi sarebbe ministro accanto o al posto di uno dei suoi parenti stretti. Se perde Marsilio perde lei, anche se la sconfitta fosse imputabile al crollo della Lega, tendenza che circola insistentemente in queste ore.
Un risultato improbabile
Ma che Meloni perda in Abruzzo resta improbabile. Nelle ultime due settimane a palazzo Chigi è scattato l’allarme e le falangi romanissime hanno marciato intorno al roccioso Gran Sasso e all’inespugnabile Maiella, che pure nei secoli è stata la casamatta di popoli italici refrattari a Roma, e più di recente di eroici resistenti e partigiani. Marsilio è uscito dal suo letargo – fino al voto sardo era convinto di vincere manutenendo le consuete clientele – e ha cominciato ad attaccare lo sfidante Luciano D’Amico con argomenti improvvisati e di fantasia: è un fantoccio di poteri forti avversi, oppure è stato un cattivo rettore.
D’Amico è molto più competente di Marsilio. Con l’aria da non politico, ha fatto quello che i politici consumati di Roma non riescono a fare: ha messo insieme con saggezza la coalizione più larga possibile, ha contenuto con intelligenza le spinte interne, ben più della presidente sarda Alessandra Todde con cui venerdì ha concluso la campagna elettorale. Ha miracolosamente tenuto al fianco ma anche a distanza i leader nazionali per convincere gli abruzzesi che contano solo loro.
Ha trasformato in contendibile una sfida data per chiusa in partenza. Una sua vittoria sarebbe innanzitutto la prova provata, dopo la Sardegna, che il centrosinistra o come diavolo vorrà chiamarsi in futuro, vince o comunque rientra in gara solo a partire dai territori e da una nuova classe dirigente concreta e inclusiva, anziché dalla travagliata composizione delle beghe nazionali.
Il centrosinistra
Da questa parte, anche stavolta Giuseppe Conte e il M5s sono nell’invidiabile posizione di avere molto da guadagnare e niente da perdere. Invece il Pd, ancora una volta, si gioca lo scapicollo. Se l’Abruzzo cambiasse segno, sarebbe la dimostrazione che lo schema Schlein non ha vinto a Cagliari per un colpo di fortuna, per il voto disgiunto – che in Abruzzo non c’è – e per un pugno di voti. In questo caso la segretaria avrebbe mano libera per seguire la sua linea anche in Piemonte e Basilicata e di imporre nelle liste delle europee le strane combinazioni a triade di cui si parla, poco, in attesa del voto di domenica.
Se non andrà così, il Pd potrà sempre rivendicare di aver strappato alla destra una delle cinque regioni al voto nel 2024. Ma dovrà tornare con i piedi per terra. E la sua segretaria dovrà affrontare con meno sufficienza la polvere spinta sotto il tappeto del Nazareno: i malumori, a volte gli aperti dissensi, che la vigilia elettorale ha solo silenziato.
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