- Tredici mesi e mezzo di reclusione a Joshua Wong, dieci ad Agnes Chow e sette a Ivan Lam. Queste le pene comminate dalla giudice Wong Sze-lai nei confronti dei tre giovani esponenti del movimento pro-democrazia di Hong Kong.
- I tre sono stati arrestati con l’accusa di aver organizzato una manifestazione non autorizzata all’esterno del quartier generale della polizia nella zona di Wan Chai il 21 giugno 2019 ed «incitato» la folla ad unirsi ad essa.
- Sebbene il tribunale abbia ammesso la natura assolutamente pacifica della protesta, ha altresì rimarcato l’importanza di «proteggere l’ordine pubblico», sancendo di fatto l’affossamento della costituzione di Hong Kong.
Tredici mesi e mezzo di reclusione a Joshua Wong, dieci ad Agnes Chow e sette a Ivan Lam. Queste le pene comminate dalla giudice Wong Sze-lai nei confronti dei tre giovani esponenti del movimento pro-democratico di Hong Kong, arrestati alcuni giorni fa con l’accusa di aver organizzato una manifestazione non autorizzata all’esterno del quartier generale della polizia nella zona di Wan Chai il 21 giugno 2019 ed “incitato” la folla ad unirsi ad essa.
Ad Hong Kong, infatti, è in vigore una legge atta a controllare l’ordine pubblico in base alla quale coloro che desiderino organizzare una manifestazione di protesta sono tenuti ad ottenere dalla polizia una “notifica di non obiezione”; in caso contrario, qualunque evento viene ritenuto non autorizzato e gli organizzatori o i partecipanti sono soggetti a pene di varia entità.
È inutile sottolineare come tale procedura sia contraria a qualunque standard internazionale. L’espressione del dissenso, del resto, si era resa necessaria considerato il ricorso da parte delle forze di polizia – nel corso di una precedente manifestazione tenutasi il 12 giugno – ai manganelli, ai lacrimogeni ed ai proiettili di gomma usati contro i manifestanti.
Diversamente dal recente passato, dal momento dell’arresto al pronunciamento del tribunale i tre attivisti sono stati costretti a rimanere in carcere: Joshua Wong, in particolare, è stato costretto a un regime di assoluto isolamento, proteggendosi gli occhi – stando alle dichiarazioni di coloro che gli hanno fatto visita – con una mascherina chirurgica, dato che l’illuminazione non veniva mai spenta.
Nella sentenza della magistrata – evidentemente sedotta dall’antica massima di Mao “colpirne uno per educarne cento” – la reclusione dei tre emerge come l’unica opzione “appropriata” al fine di scoraggiare altri dimostranti a compiere atti simili.
Sebbene il tribunale abbia ammesso la natura assolutamente pacifica della protesta, ha altresì rimarcato l’importanza di «proteggere l’ordine pubblico», sancendo di fatto l’affossamento della Basic Law, la costituzione di Hong Kong, in base alla quale ai residenti dovrebbe essere riconosciuta la piena libertà di espressione nelle forme consentite dalla legge.
Del resto, è difficile pensare che il lancio di uova contro gli edifici della polizia, il blocco imposto dai manifestanti alla circolazione nelle vie limitrofe, l’uso di spray per dare forma a graffiti di protesta o di megafoni attraverso i quali amplificare gli slogan contro la brutalità mostrata dalla polizia ai loro danni (in questo si sostanzia l’accusa di “incitamento”) possano in alcun modo essere considerati come azioni violente.
Le sbarre non fermano la protesta
Joshua Wong e Agnes Chow avevano inizialmente preso in considerazione la possibilità di rigettare le accuse mosse contro di essi, convincendosi però successivamente che una tale mossa sarebbe stata totalmente inutile e procedendo quindi a riconoscere la propria colpevolezza.
Se Joshua Wong ha accolto la sentenza con la consueta determinazione, dichiarando che non saranno certo le sbarre di una cella a bloccare la lotta pro-democratica degli attivisti di Hong Kong, essa, al contrario, è stata difficile da digerire per la Chow, figlia di un poliziotto, che si appresta per la prima volta nella sua vita a trascorrere un prolungato periodo di detenzione in carcere.
È utile ricordare come i tre attivisti arrestati, nonostante la loro giovane età, siano state tra le figure centrali del cosidetto “movimento degli ombrelli”, che, nel 2014, tenne in scacco la città-stato per ben 79 giorni reclamando a gran voce la possibilità per i residenti di eleggere liberamente – e quindi senza condizionamenti da parte di Pechino – i propri governanti.
Visto che tali proteste non riscossero alcun risultato concreto, a causa dell’intransigenza della Cina, i tre dettero vita a Demosisto, un partito politico che si fece promotore della causa di Hong Kong all’estero e che fu dissolto alcune ore dopo l’introduzione, la scorsa estate, della legge sulla sicurezza nazionale, uno strumento che consente alle autorità di imprigionare e detenere chiunque esprima qualsivoglia forma di dissenso.
Ciononostante, il tornante del 2014 fu particolarmente significativo nel consolidare un diffuso sentimento di identità politica peculiare e distinto dalla Cina territoriale. Ciò concorse a porre le basi per le massicce proteste che si sono susseguite a partire dal giugno 2019, a causa delle quali più di 10.000 persone sono state tratte in arresto; 2.000 di esse sono state processate con accuse tra cui il possesso illegale di armi, adunata sediziosa o istigazione alla rivolta.
A cosa serve Wong
Joshua Wong non ha avuto un ruolo di assoluta centralità nel corso della recente campagna, dato che essa è stata improntata alla disobbedienza civile “fluida” e in totale assenza di leadership, in modo da testimoniare la spontaneità e il coinvolgimento dell’intera popolazione della città-stato.
Wong, tuttavia, è indispensabile al movimento in virtù della sua proiezione internazionale che, per esempio, gli ha consentito di convincere gli Stati Uniti ad introdurre una serie di sanzioni contro le autorità di Hong Kong sospettate di violare i diritti umani.
L’imprigionamento degli attivisti non è nient’altro se non il risultato del pugno duro – intensificatosi dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale – imposto da Pechino ai danni di qualunque forma di opposizione politica, che ha duramente colpito il dissenso pacifico ad Hong Kong stringendogli letteralmente le manette ai polsi.
Il segnale è chiaro e inequivocabile: chiunque si azzardi a protestare contro il regime dovrà aspettarsi di essere il prossimo a pagarne le conseguenze.
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