Con La torre di Babele su La7, nella desertificazione dell’offerta culturale che caratterizza una larga fetta della proposta televisiva, l’ambizione dell’ottantenne conduttore è una boccata d’ossigeno
«Tutto cangia e il ciel s’abbella». Per inaugurare e rendere distintivo e riconoscibile il suo nuovo programma su La7, Corrado Augias ha scelto un verso del coro del Guglielmo Tell di Rossini, uno dei più celebri dell’opera lirica. Non è solo il vizio retorico dell’esteta, quanto piuttosto la rivendicazione di un modo d’essere, di un progetto culturale che non soccombe al cambio di canale, di collocazione e di linea editoriale.
“La Torre di Babele” è il titolo dell’approfondimento che il giornalista ottantottenne conduce il lunedì sera su La7; quella che simbolicamente rappresenta l’oggetto dell’incomunicabilità, il peccato originale della dispersione e frammentazione di popoli e lingue, la metafora di un mondo in frantumi, attraversato da guerre e incapace di generare dialogo, diventa il luogo in cui Augias cerca di ricomporre brandelli di conoscenza da proporre al disorientato pubblico della prima serata.
Nella desertificazione dell’offerta culturale che ormai stabilmente caratterizza una larga fetta della proposta televisiva, l’ambizione di Augias è una boccata d’ossigeno; nel vuoto di pensiero e nel pieno di parole, il suo tentativo riluce come sfida, missione, strenua difesa della volontà di trovare un senso nel caos di una comunicazione ammattita.
Una lezione di polifonia
Per fare ciò, Augias ricorre a un armamentario retorico sperimentato e consolidato negli anni, utilizzando una formula che nelle intenzioni dovrebbe richiamare la logica dell’intervista faccia a faccia, ma che in realtà nel meccanismo rivela la postura didattica e affabulatoria del giornalista.
La Torre di Babele dilata i tempi del ragionamento, apre parentesi che portano su strade tortuose ma affascinanti, stimola connessioni, rimandi, letture e aforismi che ti si appiccicano addosso ripromettendosi di tornare a tormentarti. Ciò a cui il programma somiglia è un seminario più che un’intervista, una lezione polifonica più che un talk show. Sì, è una televisione di parola, senza orpelli, ma profonda e potente.
Un formato classico
Il formato del programma non ha nulla di innovativo e particolare: in ogni puntata, Augias sceglie un grande tema che caratterizza il dibattito contemporaneo, e con un paio di ospiti a puntata lo sviscera e seziona in ogni direzione, aiutandosi con testimonianze filmate, interviste registrate e immancabili citazioni di grandi classici del pensiero e della scienza.
Alessandro Barbero per affrontare il nodo dei conflitti nel mondo, lo psicanalista Massimo Recalcati per decifrarli; Michele Serra per parlare di “giovani”; Ezio Mauro per dare sostanza a un tema gigantesco e fragile come la democrazia, attingendo a stralci di Machiavelli e John Stuart Mill che trasforma un prime time televisivo in spazio di dibattito elevato. Si affida a una scuderia di colleghi e amici rodati, trasformando per una sera La7 in un salotto ordinato e raffinato.
L’immaginario di Babele ritorna costantemente nell’attività divulgativa di Augias; così (“Babele”, appunto) si chiamava un programma che il giornalista condusse nel 1990 nella seconda serata di Raitre.
Un programma in cui si ambiva a parlare di libri in televisione, in un periodo in cui la terza rete di Guglielmi sembrava celare altre modalità di portare la cultura nel piccolo schermo: meno diretta e proposta attraverso linguaggi e formule nuovi.
Ciò che Augias non ha perso, nel corso della sua lunga carriera, è la volontà di insegnare, di diffondere sapere, di immaginare una televisione che non sia solo specchio e filtro della realtà, ma anche strumento civile di cambiamento, mezzo attivo per il miglioramento della società, la risoluzione dei problemi, la denuncia delle ingiustizie.
Il vero servizio pubblico
Già in Telefono Giallo (1987-1993, sempre su Raitre), il suo programma forse più celebre, il giornalista romano si esponeva pubblicamente, non le mandava a dire, da mediatore dei fatti di cronaca più inquietanti della Repubblica si trasformava in megafono dell’opinione pubblica, assumendo una funzione pienamente politica.
Con un garbo talvolta scambiato per supponenza, più che con il gusto populista del tribuno. Ne La Torre di Babele Augias reimposta il vecchio schema; è lui che guida, interpreta, spiega; le sue non sono mai vere domande, ma ragionamenti buttati in pasto all’intervistato, che rischia di tramutarsi in spalla.
Ma il risultato è sempre un dialogo piacevole, colto, mai banale, e capace di regalare suggestioni rare nella televisione di oggi. Un vero servizio pubblico in una tv commerciale; l’ennesima conferma, peraltro ben riuscita negli ascolti, che il concetto di servizio pubblico non sta solo nella definizione contrattuale, ma anche e sempre di più nella linea editoriale.
E che, nonostante il salvataggio in corner con il ripescaggio de La gioia della musica (Augias condurrà su Rai 3 la terza edizione del programma), la Rai si è lasciata sfuggire uno dei più abili divulgatori culturali.
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