- L’attivismo diplomatico di Giorgia Meloni in Nord Africa ha inserito nel dibattito pubblico un’espressione che anima discussioni social e riempie i giornali: “hub del gas”.
- A forza di ripeterlo, questo slogan è diventato impossibile da mettere in discussione.
- Ma non è affatto chiaro quale sarebbe il beneficio visto che far transitare il gas per altri non equivale a possederlo, men che meno ottenerlo a prezzi ridotti o con garanzie di forniture.
L’attivismo diplomatico di Giorgia Meloni in Nord Africa ha inserito nel dibattito pubblico un’espressione che anima discussioni social e riempie i giornali: «hub del gas».
Questo dovrebbe diventare l’Italia, cioè il punto di approdo e di snodo del gas che arriva da Libia e Algeria, ma anche da altri fornitori, e poi si diffonde verso il resto d’Europa.
A forza di ripeterlo, questo slogan è diventato impossibile da mettere in discussione, anche se non è affatto chiaro quale sarebbe il beneficio visto che far transitare il gas per altri non equivale a possederlo, men che meno ottenerlo a prezzi ridotti o con garanzie di forniture.
«L’Italia grazie alla sua posizione strategica e alle infrastrutture può assumere un ruolo chiave come hub del gas europeo», sosteneva l’Eni in una audizione parlamentare già nel 2019.
Oggi l’ad Eni Claudio Descalzi, che accompagna Meloni nei viaggi africani, vuole sviluppare «un grande potenziale che non si esprime» dell’Italia come piattaforma di transito di gas diretto al resto dell’Europa.
Che l’Eni spinga per questa soluzione è abbastanza ovvio, visto che il gas che arriva dal Nord Africa è estratto e commercializzato in prevalenza dall’Eni. Se l’Italia investe su infrastrutture che assicurino la connessione con i paesi con i giacimenti Eni, il gruppo energetico guidato da Descalzi avrà un futuro redditizio e assicurato anche dopo la rottura con il suo storico partner, cioè la Russia di Vladimir Putin.
Tra 2014 e 2021, complice l’inizio della transizione ecologica, gli investimenti nel settore di petrolio e gas si sono ridotti del 50 per cento: anche le aziende più inquinanti e ciniche sono restie a fare investimenti miliardari che daranno i loro frutti in un mondo che, stando agli impegni di sostenibilità di governi e imprese, userà sempre meno petrolio e sempre meno gas.
Per questo per l’Eni può essere cruciale trasformare l’Italia nella porta d’accesso del gas di tutta Europa ed evitare che la Russia, fino al 2021 fornitrice del 40 per cento del gas consumato dagli europei, venga sostituita con alternative che non vedono l’Eni coinvolta: rinnovabili, gas naturale liquefatto trasportato via nave, energia nucleare.
Anche se l’Eni è controllata dallo stato italiano con il 30 per cento, c’è sempre un altro 70 per cento di azionisti privati che è interessato ai dividendi e all’andamento del titolo in borsa.
Ed è anche a loro che Descalzi e i suoi manager rispondono, dunque non è affatto detto che l’interesse di business dell’Eni coincida con quello nazionale dell’Italia.
Il costo dell’importazione
Intanto per l’impatto ambientale. Lo conferma un documento di Proxigas, cioè la neonata associazione di Confindustria che raccoglie le imprese del gas (Eni inclusa): «Il trasporto in Italia del gas naturale dall’estero comporta l’emissione in atmosfera di una quantità di gas climalteranti che, in media, è sei volte più elevata rispetto a quanto emesso dal gas domestico».
Inoltre, avverte sempre Proxigas, l’importazione dall’estero è anche poco efficiente perché per ogni 1000 metri cubi di gas che arrivano in Italia dall’estero se ne devono estrarre in media 120 in più «che vengono consumati per il trasporto, con relativi impatti in termini di emissioni globali».
Proxigas non si preoccupa tanto della crisi climatica, ma cita questi dati per sostenere la tesi che bisogna sfruttare al meglio le risorse presenti ma non sfruttate sul territorio nazionale, 110 miliardi di metri cubi di riserve che vengono usati sempre meno.
La produzione domestica era di 17 miliardi di metri cubi all’anno nel 2000, scesa a 3 soltanto, a fronte di una domanda di 75 miliardi di metri cubi all’anno.
Rendere l’Italia un hub del gas, quindi, sarebbe più inquinante e meno efficiente che estrarre le risorse che già sono presenti nel nostro territorio. Ma forse sarebbe più remunerativo per chi trasporta il gas algerino. Resta da capire quali sarebbero i vantaggi per il paese.
Infrastrutture e capacità
Già oggi, sulla carta, il sistema di infrastrutture ha una capacità molto superiore alla domanda: l’Italia consuma 75 miliardi di metri cubi di gas all’anno e i tubi hanno una capacità massima di trasporto di 130 miliardi, quasi il doppio, di cui 115 via tubo e 15 via nave (gas naturale liquefatto).
Dunque che bisogno c’è di altre infrastrutture per aumentare l’afflusso di gas, peraltro non con l’obiettivo di consumarlo ma di dirottarlo altrove in Europa?
Il calo degli afflussi di gas russo (che in Italia entrava da Gorizia e Tarvisio, per 41,5 miliardi complessivi) ha determinato uno stress maggiore su altri tubi, come quelli che arrivano a Mazara del Vallo (dall’Algeria, capacità annua di 34 miliardi di metri cubi) e a Gela (dalla Libia, portata annua di 10 miliardi di metri cubi).
Quindi sicuramente la guerra in Ucraina costringe a ripensare le forniture energetiche italiane, come sta già succedendo.
Già è previsto l’aumento della capacità della Trans Adriatic Pipeline (il contestato Tap che arriva in Puglia) da 10 a 20 miliardi di metri cubi annui entro il 2026. «Al contrario, l’espansione del TransMed e/o del Greenstream è incerta se non improbabile, vista l’assenza di ulteriori riserve certificate che possano giustificare economicamente l’ingente investimento necessario a potenziare la rete di gasdotti», hanno scritto su lavoce.info l’economista Stefano Castriota e il geologo Roberto Gambini (con un passato nell’Eni). Eni però sta pensando di costruire un nuovo tubo dall’Algeria con l’omologa algerina Sonatrach.
L’Algeria ha già un accordo per fornire altri 10 miliardi di metri cubi all’anno all’Italia, rispetto ai 21,2 forniti nel 2021, quindi ancora rientrano nella capacità del gasdotto, che però è vicino alla portata massima. Un’altra parte arriverà via nave, come gnl, mancano 5,6 miliardi che dovrebbero arrivare grazie al raddoppio del Tap, calcolano Castriota e Gambini.
Rischi politici
Ma sostituire la dipendenza dalla Russia con quella da Algeria e, di nuovo, Libia, è una ben magra soddisfazione anche dal punto di vista dell’affidabilità politica.
La Libia, che era al centro delle strategie dell’Eni una decina di anni fa, si è avvitata nella guerra civile, dal tubo che arriva a Gela nel 2021 passavano solo 3,2 miliardi di metri cubi di gas.
L’Algeria è un altro paese molto instabile e, soprattutto, alleato della Russia nel Maghreb, assai ostile al Marocco per i contenziosi sul Sahara occidentale e al centro dello scandalo della corruzione degli europarlamentari a Bruxelles.
L’Algeria sostiene il popolo Sarawi che ha pretese di autonomia, il governo marocchino tratta con Bruxelles accordi commerciali sulla pesca che impattano il Sahara occidentale senza consultare i Sarawi e per questo la Corte di giustizia europea li ha già bocciati due volte.
Il concetto di hub del gas è uno slogan efficace dell’Eni che Meloni ha adottato, ma promette una sicurezza e una tranquillità energetica che non sembra poter mantenere.
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