Come per inverare le più angosciose profezie di golpe giudiziario, non c’è corte in Italia che non sia in qualche modo intervenuta sulle decisioni del governo Meloni. Solo nelle ultime settimane, assieme ai vari tribunali ordinari, il Tar, la Cassazione e la Corte costituzionale hanno arricchito la sequela di sentenze e ordinanze con cui il giudiziario argina o smantella atti, decreti e leggi.

Ma ben al di là del complottismo apocalittico e di colore, che quasi fa simpatia, il rischio è che la denuncia di un eccesso d’interdizione da parte dei giudici spiani la strada al sogno proibito del governo: il premierato – una “scelta obbligata”, come di recente chiosava la ministra Maria Elisabetta Alberti Casellati. In effetti, stante la transizione di sistema che i paesi occidentali stanno vivendo, non stupisce che l’esecutivo intraveda un intimo legame tra il rafforzamento delle proprie competenze e l’indebolimento della capacità di controllo del giudiziario.

La “funzione di governo”

Negli anni Trenta dello scorso secolo, Costantino Mortati, prima di farsi padre costituente nel secondo dopoguerra, elaborò una teoria del potere di governo che descrive alla perfezione la piattaforma ideologica delle attuali democrazie esecutive. Mortati sosteneva che la “funzione di governo” rappresentasse una condizione necessaria e inaggirabile per l’esistenza stessa dello stato. Detta funzione consiste nell’identificazione dei fini fondamentali della comunità politica, quelli che consentono alle varie componenti della società e ai diversi organi statali di perseguire una traiettoria unitaria e condivisa.

Di più: questi fini fondamentali danno concretezza alle norme della costituzione, che senza di essi risulterebbero troppo generali e astratte per tradursi in un programma politico effettivo. La costituzione necessita di un interprete sommo e risoluto – il potere esecutivo – che dia attuazione alle sue norme e vi insuffli uno spirito vitale.

Non sorprende pertanto che la funzione di governo – il cosiddetto “indirizzo politico” – venga ancor oggi da taluni inteso come un quarto potere, preordinato agli altri: il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario dovrebbero muovere congiuntamente e in armonia lungo la direttrice identificata dal governo nell’esercizio del potere di indirizzo.

E l’incauta ambizione delle odierne democrazie esecutive è proprio quella di presentarsi come guidate da un esecutivo superiore a ogni altro potere. In tale quadro, cercano di favorire una nuova classificazione dei poteri, secondo la quale la capacità interdittiva del giudiziario dovrebbe essere ricondotta entro margini più stringenti.

Superlegalità

Il problema, per gli alfieri di un tale modello, è che oggi non siamo più negli anni Trenta del Novecento, quando era inammissibile che un organo terzo esercitasse funzioni di controllo sull’indirizzo politico. Dalla metà del secolo scorso si è assistito a un’espansione senza precedenti delle competenze delle corti più elevate. Ad oggi, la loro attività si è affermata come un bene pubblico incondizionato, fondato su due assunti di base.

Il primo concerne l’esistenza di una “legge superiore”, una superlegalità costituzionale, che vincola sia il legislativo sia l’esecutivo. Il secondo è che questa superlegalità non è rilasciata alle libere valutazioni dei singoli poteri statali, ma si è sedimentata come inconcusso patrimonio normativo affidato alle corti più alte, sia nazionali che sopranazionali. Secondo questa visione, manifestamente antitetica al modello di democrazia esecutiva, spetta alle corti l’ultima parola sull’effettiva consonanza tra le decisioni politiche e la costituzione – nello spirito, oltre che nella lettera.

Quale esempio d’indubbia forza icastica, basterà menzionare la sentenza della Corte costituzionale in merito alla legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Nelle motivazioni i giudici dichiarano senza sovrappiù di belletto che una legge, quantunque legittima, deve comunque saper soddisfare e tradurre al meglio i principi costituzionali fondamentali, sul rispetto dei quali il giudizio ultimativo è affidato alla Corte.

Insomma, in modo persino più vivo che non all’inizio del secolo scorso, infiamma oggi la partita su chi sia il “custode della costituzione”.

In questa partita, ne va della ridefinizione dei poteri dello stato e del loro equilibrio. E prima che il nuovo assetto, qualunque esso sia, si affermi come il puro esito della collisione tra forze opposte, converrà dar vita a uno sforzo collettivo di ripensamento e regolazione in grado di temperarne le tendenze degenerative e di farne il risultato di un esercizio consapevole di democrazia.

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