- Dovendo condensare in una formula ciò che in queste settimane sta accadendo, direi che stiamo passando dal tempo delle crisi permanenti al tempo delle catastrofi incombenti.
- La catastrofe si va configurando come la forma stessa del nostro tempo, ma anche come la fine della sua rappresentabilità.
- Ricondotta alla sua etimologia, “catastrofe” non è un termine solo negativo. Significa mutamento di stato, non di qualcosa, ma dell’insieme. Questo vuol dire che solo una politica radicalmente rinnovata, non nelle sue tattiche, ma nelle sue strategie, e prima ancora nelle sue categorie, nei suoi presupposti, nei suoi valori, può fronteggiare la catastrofe. Ma il tempo stringe.
Dovendo condensare in una formula ciò che in queste settimane sta accadendo, direi che stiamo passando dal tempo delle crisi permanenti al tempo delle catastrofi incombenti. Se si confrontano le tre ultime crisi – quella economica del 2008, quella pandemica del 2020 e quella bellica attuale, la differenza salta agli occhi.
Intanto va detto che, andando indietro nel tempo, l’intera modernità è dominata dalla ricorrenza delle crisi. Si potrebbe dire che essa stessa sia il risultato di continue crisi e delle risposte innovative che esse hanno di volta in volta generato. È noto che il motore del capitalismo sia appunto il continuo superamento di crisi sistemiche, destinate a ristrutturarlo. Più recentemente la crisi è stata la forma di governo dell’economia neo-liberale, che ha consentito di gestire i conflitti sociali funzionalizzandoli al proprio modello di sviluppo.
Già la crisi economica degli ultimi anni ha prodotto un primo strappo, una prima rottura di continuità. A caratterizzarla rispetto a quelle del Dopoguerra è stata da un lato la globalità – il fatto che dall’America si è diffusa fulmineamente nel resto del mondo – e dall’altro l’intensità.
Nel giro di qualche mese il debito sovrano degli stati è diventato il centro delle dinamiche non solo economiche, ma anche politiche. Esso ha imposto nuove regole – le politiche di austerità – ma anche cambi di governo, come è accaduto in Italia. Per non parlare del collasso dei paesi più deboli come la Grecia, perseguito ferocemente da quelli più forti. Tuttavia, pur con il drastico impoverimento di ampie fasce sociali e lasciando sul campo numerose vittime, in qualche modo il sistema ha retto, anche per il ben noto intervento delle banche centrali.
A contatto con la morte
La crisi pandemica, succeduta a quella economica, è stata ben diversa. Già fuoriusciva in larga misura dal modello delle crisi economiche come forme di governo del sistema capitalistico. La pandemia era qualcosa d’altro. Non più governabile in termini economici e neanche in termini politici perché non riguardava solo il denaro e il potere, ma la vita, la necessità della sua conservazione, il dolore della sua perdita.
Come si è detto, più che di politica, era questione di “biopolitica”. I conflitti tra valori che ha aperto – tra salute e libertà, norme ed eccezione, immunità e comunità – erano assai più difficili da comporre. Un intero modo di vita è mutato drasticamente e probabilmente irreversibilmente.
Vedremo che conseguenze avrà sul piano delle relazioni sociali, del sistema sanitario, del lavoro. Per non parlare delle psicologie, devastate dall’isolamento e dal bombardamento mediatico. Del resto non si esce facilmente da un rapporto così intenso con la morte che è parsa a lungo prevalere sulla vita. In questo senso già la pandemia tendeva ad oltrepassare il tempo della crisi, per entrare nell’epoca delle catastrofi. Non era più una crisi di governo, ma una crisi catastrofica – a metà tra crisi e catastrofe, l’una e l’altra insieme.
L’ordine che non c’è più
La guerra in corso rende il passaggio dal tempo delle crisi al tempo delle catastrofi ancora più chiaro. La catastrofe si va configurando come la forma stessa del nostro tempo, ma anche come la fine della sua rappresentabilità. Ciò che collassa è la possibilità stessa di comprendere quanto sta accadendo, di conferirgli una forma, un significato d’insieme.
Non abbiamo più un criterio ordinatore, come era ancora la logica delle crisi di governo e di assestamento del mondo capitalistico. Perché quell’idea di crisi implicava, presupponeva, un ordine, che appunto andava in crisi per essere diversamente ricostruito. Oggi l’ordine è definitivamente fuori portata, letteralmente inconcepibile.
Perciò non può neanche andare in crisi – semplicemente perché non esiste. L’età delle catastrofi in cui siamo entrati, prima con la pandemia e poi, in maniera compiuta, con la guerra, non si limita a mettere in crisi un ordine precedente. Esclude la sua stessa dicibilità.
Senza logica
Quello che viviamo, dopo la pandemia, è il tempo di un caos non più ordinabile, il tempo dell’assenza dell’ordine, di un ordine divenuto impronunciabile. Oggi non abbiamo di fronte il profilo del Leviatano, ma l’ombra di Behemoth – il rischio di una guerra civile permanente.
Ha avuto con largo anticipo ragione papa Francesco quando, da tempo, ha cominciato a parlare di «guerra civile mondiale a pezzi». Perciò è così difficile interpretare questa guerra, ciò che in essa, attraverso essa, sta veramente accadendo. Nessuno ne possiede la verità. Perché una verità assoluta non esiste.
Naturalmente sul piano fattuale, come sempre si premette, c’è un aggressore e un aggredito. Qualsiasi siano state le radici storiche dei fatti in corso, resta che la responsabilità della guerra è della Russia. Ma questo non rende le cose più semplici.
Perché manca una logica degli eventi, un principio da cui derivarla: cosa ha da ricavare la Russia a prendere qualcosa – l’Ucraina meridionale – che già di fatto possedeva, al prezzo di essere esclusa da tutti i tavoli globali? Qualcosa non funziona, non è chiaro. Da qui il contrasto irriducibile tra interpretazioni contrapposte cui assistiamo, tutte per certi versi giuste e tutte sbagliate nello stesso tempo.
L’ultimo katéchon
E dunque, tanto più, emerge la difficoltà di trovare una soluzione, o anche un semplice riparo – quello che i teologi chiamavano un katéchon, un modo di contenere il male, di neutralizzare il conflitto, di “immunizzarci” da esso.
Il katéchon , nel tempo della pandemia, è stato il vaccino. Lo strumento globale per neutralizzare un male maggiore con uno minore. Il vaccino che ci ha consentito di contenere, di limitare, il virus, aveva questa forma katéchontica – sia può dire sia stato l’ultimo katéchon del nostro tempo. Il vaccino non riguarda solo l’ambito della salute, della medicina. Esso è ciò che cerchiamo in tutte le crisi catastrofiche, ogni volta che si profila una catastrofe.
È il modo di arrestare la catastrofe, di fermare l’apocalisse prima che irrompa nella storia, mettendo a essa termine. Perché questo è il rischio cui oggi ci troviamo di fronte, quando da più parti si ipotizza perfino l’uso dell’atomica. Oggi ci troviamo esattamente di fronte all’apocalisse, senza un katéchon che possa arrestarla, cui poterci aggrappare. Ecco la differenza tra pandemia e guerra.
La frattura
La difficoltà di intervenire su questa guerra – che sta spaccando l’Europa e il mondo in maniera irrimediabile – è che appare priva di katéchon, sottratta a ogni rimedio, a ogni possibile immunizzazione. Perciò essa è del tutto esterna al sistema delle crisi che finora la modernità, e anche la contemporaneità, hanno conosciuto, mentre è pienamente dentro la stagione delle catastrofi.
Le catastrofi sono crisi senza possibilità di immunizzazione, non più neutralizzabili, e dunque destinate a produrre la sconfitta di entrambi i contendenti, come sta accadendo appunto in questa guerra. Comunque vadano le cose, sul terreno non resta che un’insanabile lacerazione – la faglia tra Europa e Asia, che in realtà taglia l’intero mondo.
Paradossalmente la differenza tra pandemia e guerra è che mentre la pandemia ha unito il mondo, prima nella morte e nel dolore, e poi nella ricerca e nella produzione del vaccino, la guerra lo divide in maniera apparentemente insanabile, almeno finché non apparirà un nuovo katéchon in grado di bloccare o neutralizzare questa guerra civile europea e mondiale in corso.
Mutazione politica
Naturalmente l’unico katéchon cui sarebbe ancora possibile guardare è la politica. Se non fosse oggi sopraffatta dalle altre potenze, militari, economiche, tecnologiche. E tuttavia l’unica potenzialmente in grado, non dico di ricostruire l’ordine globale, ma quanto meno di governare il caos, di indicare un possibile punto di mediazione tra interessi contrastanti. Ma a patto che sappia trasformarsi quanto si è trasformata la storia.
Del resto, ricondotta alla sua etimologia, “catastrofe” non è un termine solo negativo. Significa mutamento di stato, non di qualcosa, ma dell’insieme. Questo vuol dire che solo una politica radicalmente rinnovata, non nelle sue tattiche, ma nelle sue strategie, e prima ancora nelle sue categorie, nei suoi presupposti, nei suoi valori, può fronteggiare la catastrofe. Ma il tempo stringe, è quasi esaurito – l’apocalisse non aspetta. In questo caso il postino non suonerà una seconda volta.
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