- Qualcuno parla di «vite perdute (...) in nome dell'intoccabile privacy» nel corso della pandemia.
- Premesso che la privacy non è “intoccabile”, salute e tutela dei dati personali non sono in conflitto. In un’emergenza sanitaria, la privacy può essere attenuata, bilanciando tutti i diritti coinvolti.
- La privacy ha costituito l’alibi con cui coprire diverse carenze. Se Immuni fosse stata congegnata diversamente - scavalcando ogni diritto, privacy inclusa - l’inadeguatezza dell’apparato preposto alla gestione del contact tracing sarebbe stata uguale, anzi amplificata.
Nei giorni scorsi, su Twitter qualcuno ha parlato di «vite perdute (...) in nome dell'intoccabile privacy» nel corso della pandemia da Sars-CoV-2. Premesso che la privacy non è “intoccabile” – con il cosiddetto decreto Capienze ne è stata notevolmente ridotta la portata - serve verificare se l’affermazione sia davvero fondata.
I principi della privacy
Sin dall’inizio della pandemia si è compreso quanto la tecnologia fosse importante per il tracciamento dei contagiati, la «ricerca e gestione dei contatti di un caso confermato Covid» al fine di «individuare e isolare rapidamente gli eventuali casi secondari e interrompere così la catena di trasmissione» (sito del ministero della Salute).
Le app di contact tracing consentono di ricostruire la catena di contatti, ai fini dell’isolamento dei possibili infetti e del contenimento dei contagi. Le prime proposte di soluzioni, sulla falsariga di quelle adottate in Stati scarsamente liberali, non tenevano in sufficiente considerazione la privacy.
Il presupposto era che il diritto alla salute prevale su tutti gli altri, ma nel nostro ordinamento non c’è conflitto o dicotomia tra salute e tutela dei dati personali. E, di fronte a un’emergenza sanitaria, la protezione di tali dati può essere attenuata, con un idoneo e motivato bilanciamento di tutti i diritti coinvolti, nel rispetto dei principi di necessità, proporzionalità e minimizzazione, tra gli altri.
Nell’osservanza di questi principi, il tracciamento avrebbe potuto essere effettuato quanto più sollecitamente, definendone la disciplina con decreto-legge, per fornire una base giuridica al trattamento dei dati personali, ed elaborando un sistema tecnologico adeguato. Per tutto ciò si è atteso mesi. Non è stata, quindi, la privacy ad aver ritardato un sistema idoneo a salvare vite umane.
I ritardi nell’app Immuni
Nell’aprile 2020 il governo ha nominato una commissione di 74 esperti dedicata a «valutare e proporre soluzioni tecnologiche basate sui dati per gestire l’emergenza sanitaria, economica e sociale legata alla diffusione del virus Sars-CoV-2» (sito del ministero dell’Innovazione).
Nel mentre, diverse istituzioni - Parlamento e Consiglio dell’Unione Europea, Garante Privacy europeo, Garante Privacy italiano, il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) - indicavano i requisiti di un’applicazione di contact tracing. Tra gli altri, utilizzo di dati di prossimità (Bluetooth), e non della posizione dei singoli utenti (GPS); sistema di raccolta dati decentralizzato, con dati (criptati o almeno pseudoanonimizzati) memorizzati nei dispositivi degli utenti, anziché centralizzato, presso un server unico; esclusione dell’uso dei dati per scopi non correlati alla gestione della crisi sanitaria.
Tali indicazioni, non vincolanti, sono state seguite dal governo, che a fine aprile 2020 ha definito la base giuridica dell’app di contact tracing. L’applicazione ha ricevuto il parere favorevole del Garante.
Nel giugno 2020 è iniziato l’uso di Immuni, l’app nazionale di tracciamento. Chi scopriva di essere positivo al Sars-Cov-2, doveva comunicare un codice alfanumerico, posto all’interno della app, a un operatore sanitario; quest’ultimo, a seguito di conferma della positività, sbloccava il codice per consentire le notifiche di esposizione ai contatti della persona infetta e avviare il tracciamento.
Ma non tutto il personale sanitario, com’è emerso dopo qualche tempo, aveva ricevuto la formazione necessaria circa la procedura da seguire. Questo collo di bottiglia ha determinato inefficienze nel meccanismo. Solo dall’aprile 2021 è stato reso possibile per l'utente caricare in autonomia il codice numerico associato al risultato del tampone. Ma ciò non ha comportato significativi miglioramenti, la sfiducia verso Immuni era ormai diffusa.
Come affermato da Luca Ferretti, ricercatore dell'università di Oxford, «l’idea del tracciamento digitale dei contatti è stata letta in versione soluzionista: si è perso di vista che questo per noi doveva essere solo un pezzo dentro l'intero sistema di salute pubblica. Se si perdevano altri pezzi, come il tracciamento manuale o la capacità di fare test, anche il tracciamento digitale non avrebbe funzionato al meglio».
Il dibattito è stato focalizzato sul tema dei dati personali e non, invece, sull’inefficienza del sistema complessivo. Inefficienza comprovata anche dal fatto che in altri Paesi europei dotati dello stesso sistema di tracciamento dei contatti, quali la Germania, si sono avuti risultati molto diversi, come numero sia di codici caricati sia di notifiche inviate. Il problema per il tracciamento dei contagi non è stato la privacy.
La sfiducia in Immuni
L’app Immuni è stata scaricata da un numero di persone inferiore rispetto a quello atteso, e ciò ha ridotto la portata della sua funzionalità. Ha influito la sfiducia determinata dalla mancanza una comunicazione puntuale e trasparente da parte delle istituzioni circa le varie fasi della procedura attivabile con Immuni.
Chi scaricava l’app non aveva alcuna certezza su ciò che sarebbe accaduto a seguito delle notifiche di esposizione al virus: in particolare, riguardo ai tempi di presa in carico da parte del servizio sanitario e, quindi, di assistenza medica, di effettuazione dei tamponi, di conseguente durata dell’isolamento e molto altro.
Così i dubbi e le preoccupazioni sull’uso dell’applicazione hanno prevalso sulla percezione dei suoi benefici, e molti hanno deciso di non fidarsi dell’app di Stato, attraverso la quale si rendevano palesi le disfunzioni dell’apparato amministrativo che doveva presiedere al suo funzionamento. Ancora una volta, la tutela dei dati personali non ha costituito il motivo dell’insuccesso del contact tracing.
Insomma, la privacy ha rappresentato l’alibi con il quale coprire le carenze strutturali che impedivano al sistema di tracciamento di funzionare.
Se Immuni fosse stata congegnata diversamente - scavalcando qualunque diritto garantito dall’ordinamento, privacy inclusa, come nei Paesi poco liberali - l’inefficienza nella gestione dei casi risultanti dalle notifiche dell’app sarebbe stata uguale, anzi amplificata.
Quindi l’affermazione da cui si sono prese le mosse, e cioè che la privacy ha impedito di salvare vite umane, è fuorviante. Lo dimostrano i fatti, unico vaccino per contrastare comode “narrazioni”. A proposito, che fine ha fatto Immuni?
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