Nei giorni scorsi sono uscite le nuove stime dell’Ocse, che prevede una crescita a rilento anche nel 2025: la Francia dovrebbe crescere dell’1,2 per cento, la Germania, dopo un 2024 praticamente in recessione, dell’1 per cento, l’Italia dello 0,8 (il governo è leggermente più ottimista e prevede l’1 per cento).

Gli Stati Uniti, pur facendo meglio dei grandi paesi europei, non dovrebbero andare molto meglio (1,6 per cento); solo la Spagna se la cava, con una previsione di crescita discreta (2,2 per cento).

Inflazione in calo

La seconda notizia è l’inflazione in forte calo a settembre, sotto l’obiettivo del 2% nell’eurozona (1,8 per cento) e nei grandi paesi: Germania (1,8), Francia (1,5) Italia (0,8) e Spagna (1,8). Gli Stati Uniti seguono con l’inflazione è al 2,2 per cento e prevista in calo ulteriore.

Come più volte ripetuto dal Diario Europeo, l’inflazione ha avuto una dinamica propria legata agli squilibri ereditati dal Covid e ai prezzi dell’energia. Le politiche restrittive delle banche centrali hanno influito poco su questa dinamica, mentre hanno avuto un ruolo rilevante nello spiegare le difficoltà delle economie europee.

Sembriamo essere tornati, insomma, a una situazione simile a quella precedente la pandemia: crescita debole quando non debolissima e inflazione sotto all’obiettivo del 2 per cento. E come allora, dopo qualche esitazione, le banche centrali si sono avviate con decisione sulla via del sostegno all’economia. Dopo i dati sull’inflazione i mercati prevedono che la Bce taglierà di nuovo i tassi d’interesse, proseguendo nel cammino intrapreso in giugno e in settembre. Alla prossima riunione del 7 novembre La Fed, passate le elezioni e finalmente libera da rischi di strumentalizzazioni, potrebbe addirittura tagliare di mezzo punto.

Il ritorno al passato

In Europa, le similitudini con il “decennio perduto” dei Duemila e dieci, iniziato con la calamitosa gestione della crisi greca, non si fermano qui; infatti, oggi i governi europei si apprestano, come fecero allora, a mettere tutte le proprie energie nella riduzione del debito pubblico, trascurando la necessità di sostenere un’economia chiaramente in difficoltà. Questo avviene in parte a causa della regola di bilancio che da quest’anno sostituisce il vecchio Patto di Stabilità e che, come era stato facile prevedere, si rivela altrettanto nociva.

Sette paesi, infatti, sono stati messi dalla Commissione europea in procedura di disavanzo eccessivo e sono quindi obbligati a leggi di bilancio restrittive. Prendiamo l’esempio di Francia e Italia, che sono tra i sette: nel nostro paese il governo nel documento programmatico di medio periodo prevede un aggiustamento di bilancio per il 2025 molto significativo. Il rapporto tra disavanzo e Pil l’anno prossimo dovrebbe passare dal 3,8 per cento al 3,3 per poi passare sotto la soglia del 3 per cento nel 2026.

Il saldo primario strutturale (il saldo al netto di interessi e componenti cicliche, che ci dice se la politica di bilancio sta spingendo o frenando) sarà zero nel 2025 per diventare fortemente restrittivo a partire dal 2026.

In Francia, spariti tutti i problemi che hanno causato la sconfessione di Emmanuel Macron nelle urne e dimenticate tutte le sfide che attendono l’economia francese ed europea, il neonato governo di minoranza della destra sembra preoccupato solo dalla necessità di trovare 60 miliardi (il 2 per cento del Pil) per due terzi in minori spese e un terzo in maggiori entrate. L’economista Mathieu Plane nota su Le Monde che una frenata così brutale avrà necessariamente un impatto violento sia sulla crescita di breve periodo che sull’investimento e sulla crescita potenziale di lungo periodo.

Ma non è solo il nuovo Patto di Stabilità il problema. Anche i paesi che non sono sotto procedura di infrazione si stanno lanciando in politiche di consolidamento di bilancio (la cara vecchia austerità). Fa impressione, ad esempio, leggere di una Germania ormai unanimemente descritta come il malato d’Europa, con un’industria incapace di far fronte alla concorrenza internazionale, infrastrutture fatiscenti e perennemente sul ciglio della recessione, in cui il ministro delle Finanze sembra solo preoccuparsi di come ridurre un debito pubblico che nessun’altro giudica preoccupante.

Questa situazione l’abbiamo già vissuta negli anni della crisi del debito sovrano, per cui è utile ricordare cosa avvenne (per dettagli il lettore può fare riferimento al mio La riconquista, Luiss University Press).

La lezione greca

Durante la crisi finanziaria globale del 2008 le politiche macroeconomiche si mossero di concerto, in modo tempestivo ed efficace: mentre la politica monetaria si incaricava con iniezioni di liquidità di sostenere il sistema finanziario, le politiche di bilancio espansive sostenevano la domanda e facevano ripartire l’economia.

Nel 2010, in seguito alle rivelazioni sulle frodi del decennio precedente, il governo greco si trovò a far fronte a una massiccia fuga di capitali e perse l’accesso ai mercati finanziari. I partner europei tergiversarono nell’accordarsi su un programma di assistenza e rapidamente il contagio toccò altri paesi della cosiddetta periferia dell’eurozona.

Contrariamente alla Grecia, però, in Portogallo, Irlanda e Spagna le finanze pubbliche non erano strutturalmente fragili e le difficoltà erano temporanee, dovute allo sforzo fatto per sostenere l’economia durante la crisi finanziaria del 2008. Ciononostante, l’assistenza finanziaria fornita dalla Troika (Commissione europea, Bce e Fondo Monetario internazionale) fu per tutti condizionata all’attuazione di programmi di riforme e austerità. Una riduzione del debito che, come accade oggi, fu perseguita entusiasticamente anche da paesi che non avevano nessun problema di finanze pubbliche come la Germania (al contrario, la fuga di capitali dai paesi in crisi le consentiva di finanziarsi a tassi negativi), che nel 2015 sbandierava con orgoglio e in mezzo alle macerie il raggiunto pareggio di bilancio.

Non è sorprendente, quindi, che l’economia europea nel 2012 si sia trovata in una seconda recessione dopo quella del 2009, questa volta autoimposta, e che per evitare il collasso dell’euro squassato da attacchi speculativi la Bce di Mario Draghi abbia dovuto prendere il volante prima con il whatever it takes e poi con politiche espansive che hanno disperatamente cercato di tenere a galla l’economia. Draghi insisteva sul fatto che la Bce si trovava a dover intervenire a malincuore, spingendo mentre le politiche di bilancio frenavano, per supplire all’inerzia autolesionista dei governi.

Oggi siamo ancora lì. In un eterno giorno della marmotta, ci apprestiamo di nuovo a vivere una situazione schizofrenica, con la Bce che riduce i tassi per dare fiato all’economia e con i governi che, invece di remare nella stessa direzione, freneranno con programmi di consolidamento più o meno severi. La cacofonia delle politiche macroeconomiche europee, che dopo la débacle greca speravamo di non dover più vedere, è ancora una volta il tratto distintivo dei tempi che viviamo.

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