La previsione tra i crimini di guerra dell'attacco alle «missioni per il mantenimento della pace» è espressamente richiamata all’articolo 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, a determinate condizioni. Se Israele non dimostra di riconoscere il ruolo della comunità internazionale che sinora è stata al suo fianco, sarà destinato alla condanna di un definitivo isolamento
È stato chiaro l’appello del premier israeliano Netanyahu rivolto dai media alle Nazioni unite, di fatto alla comunità internazionale: «Signor segretario generale, mettete le forze Unifil al riparo. Dovete farlo subito, immediatamente!». Dal primo attacco dell’Israel Defense Force alla missione Unifil in Libano il ministro della Difesa Crosetto ha parlato di un atto che può configurarsi come una grave violazione del diritto internazionale, e anche un possibile «crimine di guerra».
Le intenzioni di Israele
Dopo le parole del premier israeliano è difficile ipotizzare ancora un «errore o incidente» – qualche osservatore ha ipotizzato un atto inconsulto di fanatici riservisti nella catena di comando – e visto che tali condotte si ripetono ci sono sufficienti motivi per ritenerlo un attacco deliberato.
Israele imputa alla missione Unifil di non essere stata in grado di dare attuazione al mandato della risoluzione 1701 (2006): questa prevedeva il training e il supporto di sicurezza in favore dell’esercito regolare libanese, le Lebanese Armed Forces (Laf), nel loro rischieramento nel sud del paese, mantenendo tra la Blue Line e il fiume Litani un’area cuscinetto libera da assetti armati che non fossero quelli del governo libanese e di Unifil, in sostanza per disarmare Hezbollah e far rientrare Israele nei suoi confini.
Dopo l’attacco, l’ambasciatore israeliano all’Onu Danon ha ricordato che era stato “raccomandato” alle forze Unifil di spostarsi a 5 km a nord «per evitare pericoli mentre i combattimenti si intensificano e la situazione lungo la Linea Blu rimane instabile a causa dell’aggressione di Hezbollah». Ha richiamato che l’obiettivo di Israele non è quello di occupare il Libano, ma di allontanare Hezbollah in modo che 70.000 israeliani possano tornare alle loro case nel nord di Israele.
Secondo altri analisti, l’intervento contro le forze Onu, non a caso realizzato anche con la distruzione di telecamere areali, mirerebbe a non avere testimonianze di ciò che l’Idf si accingerebbe a compiere sul campo di battaglia. «Italia e Nazioni Unite non possono prendere ordini da Israele», ha detto il ministro Crosetto, aggiungendo che la questione andava posta nelle sedi Onu, e non certo passando alle vie di fatto prima con le intimazioni e poi con un attacco deliberato contro i caschi blu.
I «crimini di guerra»
Unifil è una operazione di peacekeeping, dunque una missione di mantenimento della pace che opera ai sensi del capitolo VI (Soluzione pacifica delle controversie) della Carta delle Nazioni unite, voluta a suo tempo da tutte le parti, Israele e Libano inclusi, realizzata con la partecipazione di 50 Stati.
Non si tratta di una operazione di peace-enforcement, di “imposizione” coercitiva con l’uso della forza (es. Guerra del Golfo) ai sensi del capitolo VII della Carta. Questo inquadramento ha importanti conseguenze in primo luogo perché la forza di una missione di pace delle Nazioni unite non può essere considerata un attore belligerante e quindi nemico.
Bene ha fatto dunque il portavoce della missione Unifil a ricordare che in capo a Israele – come alle altre parti – incombe l’obbligo di «garantire la sicurezza e la protezione del personale e delle proprietà dell’Onu». Le norme di riferimento sono chiare, a cominciare dalla stessa risoluzione vincolante 1701 del Consiglio di Sicurezza, e dalla Convenzione sulla sicurezza del personale delle Nazioni unite e del personale associato (New York, 9 dicembre 1994).
Nel parlare di «crimini di guerra» ovviamente non ci si riferisce al linguaggio comune a uso giornalistico. Si tratta di una definizione giuridica ben tipicizzata nel diritto internazionale dei conflitti armati, che oggi trova la sua più compiuta rappresentazione nello Statuto della Corte penale internazionale, il c.d. Statuto di Roma, approvato il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.
Lo Statuto introduce alla definizione dei principali “crimini internazionali”: il genocidio (art. 6), i crimini contro l’umanità, riferiti ad «attacchi estesi e sistematici contro popolazioni civili» (art. 7), l’aggressione, cioè l’attacco deliberato alla sovranità e all’integrità di uno Stato (art.8-bis), e appunto i «crimini di guerra» (articolo 8).
In merito lo Statuto definisce la competenza della Corte sui crimini di guerra quando commessi come «parte di un piano o disegno politico» o «su larga scala» (agli Stati residua la competenza sui ‘singoli’ crimini guerra), e inquadra la categoria nell’ambito delle previsioni delineate nelle fonti del diritto internazionale dei conflitti armati, in particolare nelle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 (Art. 8, para 2, sub a), e nelle “leggi e usi di guerra” nel quadro consolidato del diritto internazionale dei conflitti armati internazionali (Art. 8, para 2, sub b), e dei conflitti armati non internazionali (art. 8, sub c, d, e, f).
Secondo le previsioni dello Statuto dunque all’articolo 8 si considera «crimine di guerra» – al para 2, b), iii) – «dirigere deliberatamente attacchi contro personale, installazioni, materiali, unità o veicoli utilizzati nell’ambito di una missione di soccorso umanitario o di mantenimento della pace in conformità alla Carta delle Nazioni».
La norma richiede il presupposto che tali forze Onu comunque non operino in combattimenti proattivi (cioè al di fuori della legittima difesa, consentita alle peacekeeping) affinché a esse sia riconosciuto lo stesso «diritto alla protezione accordata ai civili e alle proprietà civili previste dal diritto internazionale dei conflitti armati»: la condizione è pertanto soddisfatta dai limiti del mandato ex capitolo VI della Carta delle Nazioni unite, ed è stata certamente osservata nell’azione di pacificazione sinora espletata dalle forze Unifil con forti autolimitazioni per evitare l’escalation.
Alle proteste ufficiali, Israele deve rispondere con informazioni chiare, e la disponibilità a un’inchiesta indipendente delle Nazioni unite e delle Corti internazionali.
Rimane aperta la questione di cosa fare ora della missione Unifil, una prospettiva che pone una serie di delicati interrogativi: ritirare la forza per proteggere i militari del contingente di pace significa dare campo libero all’azione bellica di Israele in territorio libanese, mentre cambiare il mandato di Unifil in peace-enforcement in forza del capitolo VII aprirebbe a uno scontro senza precedenti. L’Onu deve puntare necessariamente alla sua funzione originaria, che è quella di ricercare la pace, e in questo va sostenuta dal resto della comunità internazionale – Occidente e Mondo arabo in primis – che ha tutti gli strumenti (giuridici e d economici, applicando sanzioni e ritirando ogni sostegno militare) per costringere Israele a valutare la conseguenza delle proprie azioni.
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