Una parte del nostro paese si troverà a fine pandemia più ricca di prima, o meglio con più soldi nei conti correnti. E non sarà soltanto per i profittatori o per i fortunati che stanno nei settori giusti.
Sarà la maggioranza degli italiani a uscire dalla pandemia con più quattrini, e il motivo sta nel meccanismo stesso con cui il virus incide sulla nostra vita economica, che in primo luogo è circolare – le perdite degli uni sono risparmi degli altri – e in secondo luogo colpisce economicamente solo una parte, e minoritaria, della popolazione.
Scende insomma il Pil e nello stesso tempo cresce il risparmio delle famiglie a spese di quello delle imprese colpite.
Non è un discorso facile, ma bisogna pur farlo.
Una parte del nostro paese si troverà a fine pandemia più ricca di prima, o meglio con più soldi nei conti correnti. E non sarà soltanto per i profittatori o per i fortunati che stanno nei settori giusti.
Sarà la maggioranza degli italiani a uscire dalla pandemia con più quattrini, e il motivo sta nel meccanismo stesso con cui il virus incide sulla nostra vita economica, che in primo luogo è circolare – le perdite degli uni sono risparmi degli altri – e in secondo luogo colpisce economicamente solo una parte, e minoritaria, della popolazione.
Crescono i risparmi
Il fatturato in meno che hanno avuto ristoranti, alberghi, bar, cinema eccetera non è finito in un buco nero, ma in risparmi: è una spesa in meno di chi i ristoranti e gli alberghi non può frequentarli a causa delle restrizioni, e quella spesa in meno è diventato appunto risparmio – forzato – di quelli che hanno dovuto spendere meno senza aver perso reddito.
Qui sta la circolarità del meccanismo: i minori consumi (o, che è lo stesso, la minore produzione dei settori colpiti) riducono il Pil, cioè il reddito prodotto nel paese, ma non la ricchezza, dove il gioco è a somma zero: al minor reddito dei colpiti, e ai minori consumi che ne sono la causa, corrisponde maggior risparmio degli indenni.
Scende insomma il Pil e nello stesso tempo cresce il risparmio delle famiglie a spese di quello delle imprese colpite: la ricchezza resta stabile nel complesso, ma passa da chi ha perso Pil a chi non lo ha perso ma ha ridotto i consumi, aumentando appunto le proprie disponibilità.
Cala il Pil
Che è esattamente quello che è successo (e che era stato facilmente previsto, per esempio nel booklet scritto un anno fa con Fabio Innocenzi, Appunti per il dopo): un calo rilevante del Pil nel 2020 e per buona parte del 2021, accoppiato a un impressionante aumento dei risparmi delle famiglie italiane, misurato dalla contabilità nazionale e dalle banche.
La propensione al risparmio delle famiglie italiane torna al livello “giapponese” del 16 per cento circa (era scesa verso l’8 per cento), e i loro conti correnti crescono in un anno di parecchie decine di migliaia di euro.
Un fenomeno di grande rilievo, da valutare con attenzione anche perché nasconde una gigantesca redistribuzione di disponibilità economiche, da una parte all’altra del paese della quale non si parla molto.
Non tutti stanno risparmiando, ma c’è una larga maggioranza di italiani che lo fa, quella che a fine pandemia avrà più soldi da parte, e una minoranza che – economicamente – avrà pagato per tutti.
Il conto è presto fatto. In Italia ci sono 12 milioni di lavoratori dipendenti non precari (e non in cassa integrazione) e 16 milioni di pensionati. Totale quasi 30 milioni, che a fine mese hanno ricevuto intatto il loro stipendio o pensione.
Se si aggiungono i loro familiari si va verso, o oltre, i 40 milioni: due terzi degli italiani, che sono stati immuni (finanziariamente!) dal virus.
Chi perde
Gli altri hanno assorbito per intero l’effetto Covid-19 sul Pil nazionale, con un crollo del proprio reddito del 25-30 per cento circa (in media!) rispetto alla situazione precedente.
Insomma: tutti siamo colpiti dalla pandemia sul piano umano e della vita, ma se parliamo solo di quattrini, ebbene solo un terzo degli italiani ha stretto la cinghia e intaccato i risparmi (per chi ne ha), e in questo terzo per molti c’è la povertà e la disperazione.
Intanto i rimanenti due terzi del paese ha guadagnato come prima (poco, per molti, ma non meno di prima), speso forzatamente di meno, quindi risparmiato forzatamente di più: e oggi ha più soldi – 40 miliardi? – nel conto corrente.
Che il paese regga, in queste condizioni, è già un risultato straordinario.
Che cosa se ne deve dedurre? Due considerazioni, di natura diversa.
La prima, più economica. La ripresa post pandemia deve essere veloce.
Solo se lo sarà si potranno fermare i circoli viziosi ed evitare che gli effetti del virus si propaghino ai beni reali delle categorie colpite (chiudono i ristoranti, gli alberghi, i negozi…) e quindi allo stock della ricchezza del paese, innescando un’altra fase di impoverimento più generale. Ma la ripresa sarà tanto più veloce e ripida non in funzione delle risorse del Recovery fund (ci vorrà tempo) ma quanto più lo stock di risparmio involontariamente accumulato in una parte del paese potrà tornare nel circuito generale della produzione e della distribuzione di beni e servizi, il che richiede se possibile una strategia ad hoc di mobilizzazione di quelle risorse, in forme solidaristiche se non fiscali.
La seconda considerazione, che esce dal seminato, è più politica.
Come appare chiaro i ceti colpiti (parliamo di costi economici, non di altro) sono tutti nel lavoro autonomo, e forse per la prima volta una crisi grave non si scarica direttamente sull’insediamento tradizionale della sinistra – lavoro dipendente pubblico e privato, pensionati – che, al netto delle vaste aree di sofferenza in una parte dell’industria, questa volta ha, in media, mantenuto il reddito e aumentato il risparmio.
La sfida per la sinistra
Se sta ferma, la sinistra, la cui ragion d’essere è stare con chi perde, rischia di essere spiazzata dalla destra non nella generica difesa dei privilegi perduti dal ceto medio, ma per la prima volta nella tutela di diritti elementari e della dignità della parte più debole della società.
Non sarebbe neanche troppo grave, se la vedano i partiti, se non per il fatto che, così, rischia di appannarsi e venir meno, sostituito dagli egoismi, dall’incultura e dalla frammentazione, quel valore di solidarietà e coesione nazionale di cui il mondo del lavoro e in primo luogo la classe operaia italiana sono stati il bastione negli anni difficili della Repubblica.
A sinistra c’è materia per riflettere e lavorare.
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