- Il costo delle energie fossili, anche dopo che la volatilità creata dalla guerra si sarà dissipata, rimarrà elevato a lungo e il suo impatto sull’inflazione sarà in buona parte duraturo, con buona pace delle banche centrali.
- La transizione ambientale comporta un costo notevole: affermare che sia gratis è da ingenui, o da cialtroni. La tutela dell’ambiente deve essere una priorità, ma lo deve essere anche la consapevolezza di ciò che comporta.
- Il forte aumento del costo dell’energia non uccide la green revolution ma la accelera, scoraggiando l’uso delle fonti fossili e creando un potente incentivo agli investimenti nelle rinnovabili.
Agli uragani si danno nomi femminili. Quello che si è abbattuto sull’economia europea, l’uragano Energia, è il prodotto di tre concause: la crisi energetica post-Covid che, dall’aprile 2021 alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, ha visto salire il prezzo del greggio (Brent) del 51 per cento e il gas europeo (Ttf) del 345; la guerra in Ucraina che ha esacerbato la crisi, aumentando prezzi e volatilità; e i costi della transizione all’economia verde, troppo a lungo sottovalutati.
In mezzo a un uragano, la visibilità è limitata: si è sopraffatti dalla percezione del rischio e non sappiamo quando e come finirà. Ci sono però gli strumenti e le conoscenze per capire le cause degli uragani e stimare quali danni provocheranno. Vale anche per l’uragano Energia.
L’impennata dei prezzi dell’energia precede la guerra in Ucraina e ha due cause: la forte ripresa delle economie dopo il Covid; e la transizione ambientale.
Con la graduale fine dei lockdown e le massicce campagne vaccinali, la ripresa della domanda di consumi, di macchinari e del movimento di merci e persone ha colto di sorpresa non solo i produttori di energia e di materie prime, ma anche i trasporti e alcune componenti di base, come i semiconduttori, causando rialzi generalizzati dei prezzi, congestionamento dei porti e disfunzioni nelle filiere produttive.
È, questo, un fenomeno di natura transitoria: difficile prevedere quando si esaurirà, ma le politiche monetarie che verranno adottate per contrastare l’aumento dell’inflazione provocheranno un inevitabile rallentamento delle economie, contribuendo così a raffreddare anche il caro energia.
Gli effetti della transizione
L’impatto della transizione ambientale sui prezzi dell’energia sarà invece duraturo. La transizione consiste in un massiccio spostamento della domanda di energia dalle fonti fossili (chiamamolo bene A) a quelle rinnovabili (bene B).
Non lo si può fare per decreto o con qualche intervento statale, ma si deve far sì che la domanda si sposti autonomamente da A a B: l’unico modo per farlo è un forte e duraturo aumento del prezzo di A che ne scoraggi l’uso, incentivando quello di B.
Accadde negli anni Settanta: la crisi energetica di allora e il conseguente aumento dei prezzi, favorirono risparmio energetico e maggiore efficienza, con una caduta permanente dell’energia consumata per una unità di prodotto.
C’è però una seconda condizione: che i produttori del bene A non aumentino l’offerta a fronte dell’incremento del prezzo, per evitare che un eccesso di offerta renda di nuovo conveniente A, vanificando lo spostamento di domanda verso B.
Una condizione che si sta realizzando perché le società energetiche occidentali, anche sotto la spinta degli investimenti con criteri Esg, da tempo hanno tagliato gli investimenti in ricerca ed estrazione, nè vogliono aumentare la capacità produttiva di qualcosa la cui domanda andrà a diminuire nel tempo.
Non lo fanno neanche Arabia Saudita o le società americane dello shale oil perché hanno imparato dalle esperienze passate che un aumento dell’offerta provoca inevitabilmente una rapida caduta dei prezzi riducendo così la redditività degli investimenti.
Domanda e capitale
Ci sono poi due ulteriori elementi di costo nella transizione ambientale. Il primo è un grande aumento della domanda, e quindi dei prezzi, di minerali come litio e cobalto per le batterie o rame, palladio e alluminio per le auto elettriche, e di input come i semiconduttori che sono ormai il cuore di qualsiasi macchinario.
Il secondo è il costo del capitale necessario per costruire nuove infrastrutture (oltre al deprezzamento accelerato dei vecchi impianti): come le reti intelligenti necessarie per le rinnovabili (per combaciare una produzione molto decentrata rispetto agli utenti, e variabile a seconda del sole e del vento); le stazioni di rigassificazione per il gas LNG, e relativi allacciamenti alle reti esistenti; gli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno; o i giganteschi parchi solari ed eolici.
La prima conclusione è che il costo delle energie fossili, anche dopo che la volatilità creata dalla guerra si sarà dissipata, rimarrà elevato a lungo e il suo impatto sull’inflazione sarà in buona parte duraturo, con buona pace delle banche centrali.
La seconda è che la transizione ambientale comporta un costo notevole: affermare che sia gratis è da ingenui, o da cialtroni. La tutela dell’ambiente deve essere una priorità, ma lo deve essere anche la consapevolezza di ciò che comporta. La terza è che il forte aumento del costo dell’energia non uccide la green revolution ma la accelera, scoraggiando l’uso delle fonti fossili e creando un potente incentivo agli investimenti nelle rinnovabili.
La guerra all’Ucraina e le sanzioni alla Russia aggiungono volatilità, ma di per sé non avranno un impatto duraturo sul costo dell’energia. La maggiore volatilità dei prezzi è dovuta al funzionamento dei mercati delle materie prime: dall’acquisto di una materia, sulla base di condizioni contrattualmente stabilite, alla consegna, passa tanto tempo e si affrontano costi elevati (stoccaggio, trasporto, assicurazione e finanziamento). Pertanto, chi opera su questi mercati cerca di bloccare il proprio profitto vendendo la materia prima a termine, tramite futures, se pensa che il prezzo sia arrivato a un livello sufficientemente elevato: esattamente come era il caso per gas e greggio il 23 febbraio scorso. Con l’invasione dell’Ucraina gli investitori finanziari hanno acquistato massicciamente futures, spingendo al rialzo i prezzi, per scommettere sulla probabilità di un futuro embargo di forniture russe. I traders di materie prime che in quel momento erano venditori di futures hanno cominciato a perdere grosse somme e hanno dovute chiudere le loro posizioni (comprando futures), in questo modo spingendo i prezzi ancora più su. Una volta che il mercato si ribilancia, però il prezzo crolla: in poco tempo il Brent è così salito del 32 per cento per poi scendere del 23; il gas europeo del +155 e -57; nickel e palladio, esportati dalla Russia, hanno subito oscillazioni anche più forti. La volatilità finirà con la guerra: il mercato a termine sconta per il secondo semestre 2023 prezzi del brent e del gas TFF inferiori del 20 e 47 per cento, rispettivamente, ai prezzi attuali.
Ma la guerra non cambia né la domanda complessiva di energia, che dipende dalla crescita globale, né dall’offerta, visto che la capacità produttiva non cambierà in modo sostanziale. Ci sarà, invece, una grande redistribuzione dei flussi: l’Europa comprerà il gas Lng da Usa e Qatar, in precedenza destinato all’Asia; la Cina comprerà il gas e il petrolio che prima la Russia vendeva all’Europa, eccetera. Ci vorrà tempo e l’assestamento avrà un costo, ma non è un fattore permanente del caro energia.
Le mosse di Putin
Altrettanto ininfluente la richiesta di Putin di pagare in rubli. Non serve a sostenere il rublo perché la Russia ha già oggi un avanzo delle partite correnti stimato in 20 miliardi al mese perché le sanzioni non colpiscono le esportazioni di energia (pagate in valuta), ma hanno azzerato le importazioni.
Inoltre, gli esportatori russi di energia devono convertire l’80 per cento della valuta in rubli presso la Banca Centrale. Se gli importatori dovessero pagare in rubli, dovrebbero acquistarli contro valuta da una banca che ha una corrispondente in Russia, che poi la gira alla Banca Centrale. Il risultato finale cambia poco.
Forse Putin spera di poter controllare il prezzo dell’energia, ma non è così. Il greggio è un mercato mondiale integrato (si può spostare un carico da un mercato all’altro) e il suo prezzo è stabilito in dollari; quello in rubli sarà quello in dollari moltiplicato il cambio: è il cambio che si aggiusta al prezzo, non viceversa. Il gas europeo è invece un mercato segmentato (dai gasdotti esistenti).
Ma chi importa gas poi vende elettricità in euro: il prezzo in rubli che pagherà dovrà comunque garantire un margine una volta convertito in euro.
Se poi i paesi europei, invece di andare in ordine sparso, capissero finalmente che gli conviene formare un cartello per gli acquisti (stile Opec), avrebbero il coltello dalla parte del manico: la Russia non può fare a meno dei nostri acquisti energetici, se non vuole morire di fame. Letteralmente.
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