L’uso della violenza come mezzo di lotta politica non ha, in sé, nulla di particolarmente originale. È un’eredità dei tempi che ci precedono, in particolare del Novecento, per molti aspetti il vero secolo buio della storia dell’umanità.

Nello specifico italiano, che tanto ha purtroppo insegnato ai vicini europei, il precedente è ovviamente quello fascista, che nasce violento prima di diventare politico, che fa dell’avversario un nemico prima ancora di arrivare al potere.

Dovremmo sapere tutti come è proseguita la storia; di certo lo sanno meglio gli antifascisti rispetto a coloro che invece si professano epigoni di quell’esperienza politica. Si professano e rivendicano, oggi, apertamente, mentre fino a qualche anno fa, tutto questo buio era tenuto represso e nascosto. È un segnale evidente.

La violenza fascista ha casa

Uno stato degno di essere definito “di diritto” non può nascondersi dietro le imperfezioni della democrazia. Se non si approvasse tacitamente ciò che tanti esponenti dell’estrema destra di base rivendicano apertamente, non ci sarebbe alcun problema a mettere la parola fine alla storia di associazioni chiaramente antidemocratiche come CasaPound. Come può, la violenza fascista, in una democrazia vera ed effettiva – il che significa antifascista – avere addirittura una casa?

Questa contraddizione perdurante della nostra quotidianità ha anch’essa radici profonde nel passato. Quando il fascismo emerse come un’opzione e con un progetto che faceva appunto dell’eliminazione del nemico, e non solo della sua sconfitta, il proprio obiettivo, tale violenza non era lecita o legittimata dall’Italia liberale. L’orrore della Grande guerra, l’esperienza della trincea e della morte di massa, avevano forse abituato alla violenza, ma non la rendevano ammissibile.

Una classe politica compiacente e compiaciuta pensò, tuttavia, che fosse utile approfittarne, per evitare che magari i lavoratori riemersi da quelle trincee iniziassero a pretendere il rispetto dei loro diritti, o si affermasse qualche ipotesi politica concretamente rivoluzionaria (all’epoca, anche una democrazia effettiva poteva essere una proposta sovversiva). Il fascismo nascente, violento e picchiatore prima ancora di capire di poter diventare una forza di governo, venne utilizzato dalla classe dirigente liberale, che poi da esso fu inglobata e divorata, con una straordinaria rapidità.

Quindi, l’Italia del Novecento, per trasformarsi in una democrazia compiuta, dovette attraversare la dittatura, le guerre succedutesi l’una dopo l’altra fino a quella mondiale, la soppressione dei nemici esterni e interni, politici e addirittura razziali. E poi, per fortuna, la Resistenza e il 2 e il 3 giugno 1946, la Repubblica, la Costituzione.

Una storia che continua

Nessuno storico sosterrebbe mai che la storia si ripete. È uno slogan che può risultare efficace nelle chiacchiere da bar o sotto l’ombrellone, ma è solo questo. Il fatto, peraltro, è che qui non si sta ripetendo nessuna storia: questa è una storia che continua, che non è mai finita, che non è mai stata davvero rinnegata dalla parte politica che oggi ci governa. Dire che non è più tempo di parlare di fascismo e antifascismo perché entrambi superati, è usare slogan come quello appena citato. Lo sappiamo dalla storia personale di ognuno di noi: se un problema non viene affrontato, esso non sparisce, prima o poi riemerge e lo fa nel modo peggiore.

È quello che sta succedendo: il problema sta riemergendo nel modo peggiore, poiché ora si sente legittimato a riproporsi come progetto, si attribuisce addirittura una dignità politica all’interno di una democrazia costituzionale.

Del resto, ha una casa non solo nel nome, CasaPound: occupa infatti illegittimamente un intero stabile di più piani nella capitale, al centro di Roma. Chi rappresenta la nostra democrazia continua a permettere che ciò avvenga, nonostante gli appelli, le vane promesse, le concrete dimostrazioni di pericolosità e di eversione – lo dice il presidente della Repubblica: eversione – che gli abitanti di quella casa offrono quotidianamente.

Lo stato sta permettendo a degli eversori di occupare senza averne diritto degli spazi che gli appartengono, mentre alcuni dei suoi vertici – in particolare il presidente del Senato Ignazio La Russa – giustificano, con toni che fingendo ironia minacciano, l’uso della violenza politica. La questione è semplice: per mettere riparo a questa situazione, basterebbe che lo stato e le istituzioni rispettassero la Costituzione antifascista sulla quale si basano. Per tutto ciò che a essa non corrisponde, in Italia non deve esserci spazio, né, tantomeno, una casa.

Provocare i fascisti

Torniamo agli slogan, però. Forse c’è una storia che si ripete: è quella del potere che invece di condannare i carnefici si scaglia sulle vittime. Succede da decenni con i partigiani e i civili uccisi nelle stragi del 1943-1945, accusati di aver “provocato” i nazisti e i fascisti e dunque la proprio morte. È la negazione della legittimità della Resistenza. Ma è anche la giustificazione dell’assassinio indiscriminato di inermi, la forma massima di violenza politica.

Oggi noi stiamo commemorando l’ottantesimo anniversario delle più grandi stragi nazifasciste in Italia: tra pochi giorni, il prossimo 12 agosto, Sant’Anna di Stazzema; a fine settembre Monte Sole-Marzabotto. Da qualche ora, però, viviamo una preoccupazione sottile relativa a quello che potrebbe avvenire con i parenti delle vittime degli eccidi. Questo perché c’è chi ha avuto l’impudenza istituzionale di scagliarsi contro i parenti delle vittime della strage neofascista della stazione di Bologna.

Eccola, la storia che continua: stragi, fascismo, nazifascismo, neofascismo. Continua perché, finita la guerra, non si ebbe la volontà di epurare lo stato, di fare i conti con i crimini italiani oltreché nazisti e fascisti, e tutto questo complesso insieme determinò l’impunità dei responsabili e la condanna dei sopravvissuti a un lutto privato e irrisolto.

L’obbligo e i distinguo

La storia che continua è anche quella della mancata giustizia, dei processi negati o prolungati per anni, della verità come aspirazione forzatamente repressa. Chissà, mi chiedo, se fra pochi giorni, quando si commemorerà l’eccidio di quasi 400 civili inermi a Sant’Anna di Stazzema, qualcuno oserà parlare come si è fatto il 2 agosto con Bologna.

Sono «le sentenze» che hanno attribuito la strage del 2 agosto 1980 «a una matrice neofascista», come se la magistratura che ha faticosamente emesso quelle sentenze, fosse qualcosa di diverso dallo stato, e da quelle sentenze la presidente del Consiglio e il presidente del Senato della Repubblica potessero in qualche modo dissociarsi. Chissà se qualcuno che si troverà obbligato a commemorare le 770 vittime inermi di Monte Sole avrà il coraggio di instillare distinguo simili sulle responsabilità nazifasciste.

La storia continua, a ottant’anni anni dalle stragi della Toscana e dell’Emilia-Romagna, a 44 anni da quella di Bologna. Come quando si esita a pronunciare una condanna sul fascismo, il 2 agosto 2024 si è persa l’occasione di lavorare sullo scarto, di far notare l’appartenenza a una storia diversa. E si è fatto anche di più: si è scelto di percorrere la storia che continua.

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