Il pool dei giornalisti investigativi di Domani è finito, quasi al gran completo, sotto inchiesta. Di fatto la procura di Perugia imputa loro una sola cosa: aver fatto bene il proprio lavoro
Il pool dei giornalisti investigativi di Domani è finito, quasi al gran completo, sotto inchiesta. Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Stefano Vergine sono tutti indagati dai magistrati della procura di Perugia, che di fatto imputa loro – a leggere le carte dell’accusa – una sola cosa: aver fatto bene il proprio lavoro. Che è quello di trovare buone fonti, ottenere notizie segrete sui potenti di pubblico interesse, verificarle e infine pubblicarle.
A beneficio unico dei lettori e della pubblica opinione. Senza mai tenere informazioni rilevanti nel cassetto, come troppe volte capita nella nostra professione. A Domani non accade mai: la regola aurea in redazione è pubblicare sempre, e pubblicare tutto.
Secondo i pm guidati da Raffaele Cantone, però, realizzare inchieste giornalistiche con l’ausilio di carte vere ottenute da fonti giudiziarie è un reato, da condannare severamente: per le fughe di notizie i giornalisti di Domani rischiano ora fino a cinque anni di carcere.
Gli inchiestisti indagati
Un fatto grave: mai era accaduto che fosse indagato l’intero pool d’inchiesta di uno dei pochi giornali d’opposizione del paese. Accusato non di aver diffamato politici, faccendieri o mafiosi, né di aver spacciato notizie fasulle, ma incriminato per aver scritto la verità sui tesorieri della Lega nord, sui prestiti e gli affari di Matteo Renzi, sui soldi alle fondazioni politiche, sulla distrazione di fondi pubblici, sui finanziamenti illeciti ai partiti, sui circuiti di riciclaggio dei capitali mafiosi.
Decine e decine di inchieste giornalistiche che hanno caratterizzato la storia del nostro giovane quotidiano, finite ora nel mirino dei giudici e di alcuni giornali (che pure quelle notizie hanno rilanciato, e che infinite altre volte sono stati protagonisti di fughe di notizie riservate) che ventilano nientemeno l’ipotesi di «spionaggio e dossieraggio». Parole infamanti per chi fa il proprio lavoro con la schiena dritta, senza abbeverarsi alle fontane (e veline) dei potenti di turno, ma provando sempre a informare in maniera indipendente, talvolta a rischio della propria pelle (Tizian ha vissuto per lustri sotto scorta a causa delle minacce della ’ndrangheta).
In questo attacco alla libertà di stampa – voluto o meno è indifferente: il risultato è questo – c’è un’aggravante. Le indagini sui giornalisti sono partite grazie a un esposto del ministro Guido Crosetto, fedelissimo della premier Giorgia Meloni, a cui non sono piaciuti alcuni articoli di Domani che segnalavano il suo palese conflitto di interessi al tempo della nomina alla Difesa: consulente per poco meno di un milione di euro l’anno di Leonardo prima, titolare del ministero preposto all’acquisto di armi dalla medesima società dopo.
La mossa a sorpresa
Impossibilitato a depositare querela per diffamazione, visto che i dati sui suoi business erano veri (lo stesso ministro aveva spiegato qualche mese prima che non avrebbe potuto per questioni di opportunità sedersi sulla poltrona di palazzo Baracchini), Crosetto ha preferito fare una mossa a sorpresa, e ha chiesto ai magistrati di scovare la fonte dei giornalisti.
I pm e la guardia di finanza si sono messi al lavoro e, una volta individuato il pubblico ufficiale sospetto, hanno deciso di iscrivere nel registro degli indagati non solo il presunto whistleblower (l’indiziato è il finanziere Pasquale Striano, accusato anche di altre fattispecie in cui Domani nulla c’entra), ma anche i nostri cronisti.
Nulla è più noioso e sterile di un giornale che si parla addosso guardandosi il buco dell’ombelico. Ne avremmo fatto volentieri a meno.
Un clima cupo
L’episodio però è simbolico di un clima sempre più cupo che avvolge il libero giornalismo italiano: dalle leggi bavaglio che impediscono ai media di riportare le ordinanze di arresto alle querele sistemiche di membri del governo contro la stampa non allineata; dall’acquisizione dei tabulati telefonici ordinati dalla procura di Roma sui cellulari di giornalisti di Report (per individuare le fonti dello scoop dell’incontro tra Matteo Renzi e la spia Marco Mancini) fino all’intercettazione dei reporter da parte dei pm che indagavano sulle ong.
Dare notizie di rilievo su politici, aziende di Stato e criminali è diventato un lavoro a rischio. Ma promettiamo ai nostri lettori, unici nostri padroni, di continuare a farlo.
Anche a costo di infrangere le regole continueremo a onorare l’articolo 21 della Costituzione, tentando di illuminare il buio dentro il quale pezzi del potere amano muoversi lontano da occhi indiscreti.
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