Mentre conta solo la forma, lui condisce un pezzo pieno di apparenza ma che poi, andando in profondità, ha molti altri significati. Armato di autoironia, riesce a rendere meno indigesto l’indicibile. E così si fa ascoltare
Il primo Festival di Sanremo d.C., quello dopo l’avvento di Chiara Ferragni che è entrata papa ed è uscita Barabba, Amadeus ha pensato bene di eliminare il superfluo e di riportare la canzone italiana al centro dello show. Ma anche di lato, a destra e a sinistra, di sopra e di sotto, dentro e fuori.
Nella 74ᵃ edizione, infatti, i cantanti sono ovunque e si guadagnano momenti di trascurabile celebrità in qualsiasi modo. Presentano i loro colleghi, indossano abiti alla moda, ramazzano il palco, monologano in libertà e si omologano ai tempi. Sono delle Barbie tuttofare ma a differenza della Barbie imprenditrice digitale sono perfettamente a loro agio in ogni ruolo.
D’altronde, nel frattempo, l’Italia è diventata l’emblema della versatilità: il paese del ministro capotreno, cognato della presidente influencer, che ha aperto la strada al Frecciarossa per Sanremo – il charter che ha effettuato una fermata Lollobrigida per i dipendenti Rai, bypassando il vicepremier food blogger.
Il solo errore, l’unica disarmonia, in questa partitura perfetta, è stato ridicolizzare una star internazionale con «Il ballo del qua qua». Cioè chiedere a John Travolta di ballarci sopra, di calpestare questo grande classico, invece di farglielo intonare e valorizzarne in questo modo le note e il significato (profondamente politico, secondo gli attivisti social che considerano le poesie di Giorgia Soleri un manifesto).
Al servizio dei social
Il fatto è che negli ultimi anni il prodotto di punta della Rai è diventato il figlio della serva di Instagram, che il Fantasanremo è il nuovo Gianni Boncompagni che conduce via auricolare il programma, che bucare lo schermo non è più un modo di dire ma va inteso in senso letterale - e infatti ripararlo ci costerà 175mila euro di multa per pubblicità occulta in favore di un social network che non è il Televideo.
Così il direttore artistico ha deciso di mettere a segno la sua manita tornando ai fondamentali: la musica. Ma forse ha esagerato con le quantità, perché trenta brani in gara cannibalizzano lo spettacolo e perché alla fine di una scorpacciata forse ti senti sazio ma di sicuro non hai più idea di cosa abbia ingurgitato.
A maggior ragione se così tante canzoni, melodie e testi, si assomigliano così tanto da sembrare lo stesso pezzo interpretato da artisti diversi. A maggior ragione se i nomi di alcuni autori si ripetono come un mantra, polverizzando in una manciata di edizioni i record di nomination che Beppe Vessicchio si è guadagnato in due decenni larghi di Grande Sanremo.
D’altra parte, quest’anno più che mai, della prossima mezz’ora – del prossimo danno d’immagine – non v’è certezza. È quindi comprensibile che l’economia sia diventata per tutti quella cosa che ti permette di conquistare il massimo guadagno nel minor tempo possibile – anche se questo tempo breve potrebbe essere percepito come un’eternità dai milioni di telespettatori svegli fino alle due del mattino per cinque serate di fila.
L’onda alta
È in questo contesto che l’«onda alta» di Dargen D’Amico crea un cortocircuito. Perché in realtà la sua è un’onda lunga, un movimento lento. Che stona con la velocità di esecuzione alla quale ci siamo assuefatti e che rende questo cantautore l’unico vero oggetto misterioso di questa edizione del Festival.
Sotto il palco di Sanremo – dietro gli occhiali a specchio e la dichiarazione sul cessate il fuoco – si muove infatti un mondo: un sito dedicato, un fumetto a puntate disegnato da Daniel Cuello, un’edicola in Piazza Muccioli, degli incontri dal vivo condotti da Maura Gancitano e Andrea Colamedici con ospiti i giornalisti Valerio Nicolosi e Leila Belhadj Mohamed, Cecilia Strada e la Babelnova Orchestra, che si confrontano a partire da alcune frasi contenute nel brano e su grandi temi come le migrazioni, la crisi climatica, la guerra.
C’è talmente tanto altro, al di là della canzone che porta in gara, al di là del marketing facile, che l’Ariston sembra appena un diversivo, un pretesto. Mica la luna, al massimo un dito. Ma praticamente tutti si accontentano solo di quello.
L’arma dell’autoironia
Dargen rappresenta un unico nella scena rap italiana perché la sua cifra è l’autoironia, cioè un codice troppo antico per anni che oscillano tra quegli identici opposti che sono l’ego e il vittimismo. I suoi vestiti improponibili e i suoi giochi di parole sciocchi sono solo degli apparecchi di cui si serve per rendere meno indigesto l’indicibile.
In questo modo le sue parole diventano una lama che affonda nel burro. Perché prima ti disarma – gli orsetti sulla giacca, la musica dance – poi fa di te quel che vuole, cioè ti spinge ad ascoltare, tanto tu ormai ti sei convinto che un buffone come lui non possa dire niente di davvero importante, niente di grave, niente di solenne.
In qualche modo, in questo modo, ti costringe a scoprire che il vero pagliaccio sei tu: così abituato a farti bastare la confezione – l’involucro, la forma, le risate, la vacuità, tutto ciò che brilla – da abboccare al suo amo senza opporre resistenza, senza accorgerti di avere già abboccato mentre pensi di essergli sfuggito.
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