- Un altro delitto è stato commesso in un luogo di culto: un assassino islamista è entrato nella cattedrale di Nizza e ha ripetuto lo scempio evocativo della decapitazione sul cadavere di una donna cristiana
- C’è un di più nell’uccidere chi prega, qualunque sia il credo. E lo si coglie se si prova ad intrecciare la lista di quelle carneficine, talmente numerose da rendere difficile l’elenco
- Ci vorrebbe un martirologio comune, nome per nome, per dire che davanti alla violenza credenti e non credenti siamo fratelli tutti e tutte sorelle, custodi del nome dei dimenticati e della voce del loro sangue
Un altro delitto è stato commesso in un luogo di culto: un assassino islamista è entrato nella cattedrale di Nizza, ha compiuto un massacro e ha ripetuto lo scempio evocativo della decapitazione sul cadavere di una donna cristiana. È facile presumere che nelle vele interiori di questo che a ora appare come un solitario abbia soffiato il vento della irresponsabile propaganda turca dopo l’uccisione di Samuel Paty; ma certo avere scelto una casa di preghiera per il proprio crimine iscrive il carnefice in una serie lunga di delitti. Talmente lunga da perderne la memoria e da porre a tutti – credenti e non credenti, democrazie laiche e stati confessionali – un dilemma fondamentale. Quei morti possono infatti essere categorizzati per credo: ciascuno con le sue bare in una contabilità odiosa, in cui ogni fede può dimostrare un qualche primato.
E allora si assiste al macabro accatastarsi dei morti cristiani per denunciare una “cristianofobia” che dovrebbe servire, là dove i cristiani non conoscono altro che il naufragio della loro tensione apostolica, a rivendicare una fettina di potere. E si assiste all’estendersi smisurato del cimitero dei musulmani uccisi in moschea: se sciiti, del tutto irrilevanti; se sunniti appena più compianti, dal loro ambito. E poi le sinagoghe, da tempo costrette a difendersi e blindare gli accessi anche in Italia, che ha il vile primato dell’attentato palestinese del 9 ottobre 1982, quando un commando palestinese sparò sui fedeli all’uscita del Tempio maggiore di Roma e uccise Stefano Taché, 2 anni. E poi gli assalti ai tempi hindu, a partire da quello ai pellegrini dell’Amarnath nel 2000 per stare ai tempi recenti. Memorie divise e in certo modo blasfeme, nella misura in cui non colgono che insieme alla viltà caratteri propri di tutto il terrorismo, che il terrorista suicida cerca vanamente di riscattare sacrificando la propria vita mentre aggredisce gli indifesi, c’è un di più nell’uccidere chi prega. E lo si coglie se si prova ad intrecciare la lista di quelle carneficine, talmente numerose da rendere difficile l’elenco e impossibile la riproduzione. Se se ne vuole prendere una ogni tanto, partendo da quella ordinata da Abu Nidal a Roma nel 1982, si vede come un crescendo di cui si possono ricordare solo alcuni punti fra i tanti.
Dai Tamil a Christchurch
Il 15 ottobre 1992, nel corso del grande massacro dei musulmani di Palliyagodella 40 furono uccisi in moschea dai miliziani Tamil, che il 3 agosto 1990 sparano su 147 persone inermi nella moschea di Kattankudy. Il 29 agosto 2002 nella preghiera del venerdì alla moschea dell’Imam Alì di Najaf muoiono 95 persone per un’autobomba. Nel 2000 sono 105 i pellegrini hindu dell’Armanath sterminati e 13 nel 2001 al lago Sheshnag, sulla via dello stesso pellegrinaggio. Il 30 marzo e il 24 novembre 2002 un attentato islamico ai fedeli hindu nel Tempio di Rama a Jammu uccide una ventina di persone. Il 22 febbraio 2006 il santuario sciita di al-Askari fa mille morti, seguito poi da una teoria di attacchi suicidi alle moschee dell’Iraq che sembra non spegnersi mai.
Il 22 settembre 2013 nella chiesa di tutti i Santi di Peshawar un commando islamista uccide 127 persone. Nell’attentato alla sinagoga di Har Nof, a Gerusalemme il 18 novembre 2014, durante l’Amidah mattutina, muoiono 5 persone e le altre si salvano per la pronta reazione di una guardia drusa. Il 17 luglio 2015 un suprematista bianco ammazza a fucilate la pastora Pinnkney e 9 fedeli impegnati nella preghiera biblica della Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston. Il 26 luglio 2016 a Saint-Étienne-du-Rouvray, due militanti di Daesh sgozzano padre Jacques Hamel, nella chiesa del santo patrono. Al Cairo nella cattedrale di san Pietro (la Botroseya) un attentatore suicida fa strage di 29 cristiani l’11 dicembre 2016. Il 9 aprile 2017 ancora la chiesa copta conta 45 morti nell’assalto della domenica delle Palme alla chiesa di Tanta e alla cattedrale del papa di Alessandria.
Nella sinagoga Tree of Life a Pittsburgh nello Shabat del 27 ottobre 2018 vengono assassinate 11 persone. Il 15 marzo 2019 nella moschea di Christchurch in Nuova Zelanda 51 musulmani vengono uccisi da un fanatico suprematista. Il 21 aprile sono i fedeli che partecipano alla Pasqua nelle basiliche cattoliche di St. Anthony a Kotahena, Colombo, di St. Sebastian in Negombo della Zion Church in Batticaloa che vengono massacrati con centinaia di morti. Il 27 aprile 2019 alla Chabad di Poway John T. Earnest spara a Lori Gilbert-Kaye e ferisce altri fedeli della sinagoga ortodossa. Alla Sinagoga Halle del 9 ottobre 2019, un terrorista cerca di entrare e riesce “solo” ad uccidere un uomo. Il 17 febbraio a Pansi, nel Niger, il pastore protestante viene ucciso con 24 fedeli nella domenica. Il 25 marzo noi eravamo in lockdown, ma Daesh organizzava un attentato sanguinoso con 25 caduti al Sikh gurdwara dell’Afghanistam. A luglio scorso nella International Pentecostal Holiness Church di Zuurbekom, in Sud Africa 5 persone vengono uccise nel culto.
In questo disegno cupo mancano centinaia di punti, centinaia di morti: per arrivare all’attentato di Nizza. Ma che come le vittime di questa ultima strage pongono una sfida enorme al dialogo interreligioso: questo sforzo, grande e tutto sommato recente, come ha ricordato il cardinale Matteo Maria Zuppi al G20 di Riyhad, è oggi spesso segnato da un discorso generoso e stereotipato contro chi uccide in nome di Dio. Un discorso che spesso scivola in una sorta di autocaricatura: come se a un congresso di leoni, si alzasse qualcuno a dire che i veri leoni sono vegetariani e che i leoni non vegetariani non sono leoni…
Sapere e sapienza
I meeting dei capi religiosi camminano spesso su quel filo: come se non toccasse alla memoria storica loro e alla memoria storica tout-court ricordare che le fedi consegnano una enorme responsabilità. Dividono gli uomini non in base al loro credo, ma in base all’uso che vogliono fare della loro fede. Nei delitti commessi nei luoghi di culto questo iato appare enorme: fra chi prega e chi uccide chi prega per un odio etnico-religioso o una teologia razzista o una dottrina del sangue che per essere sganciata dal proprio retroterra ha bisogno di sapienza e di sapere. Il sapere che consente di conoscersi (ogni famiglia religiosa ha nel proprio album di famiglia gli assassini) e di essere conosciuti (ognuno può e deve avere contezza di quella parte di tradizione dell’altro ospitale verso la differenza); la sapienza che consente di riconoscersi (in una fraternità che parte dal punto più alto della rivelazione e non solo dal dato creaturale) e di essere riconosciuti (perché ciò che cura il fondamentalismo sono i diritti, non il sospetto). In questa sapienza ci vorrebbe un elenco degli oranti uccisi, nome per nome: un martirologio comune per dire che davanti alla violenza credenti e non credenti siamo fratelli tutti e tutte sorelle di Caino e che, custodi del nome dei dimenticati e della voce del loro sangue, fratelli di Abele.
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