- Il governo Meloni, ma più in generale l’élite italiana, da qualche anno diserta i consessi internazionali come il forum di Davos, in corso in Svizzera.
- A Davos o al Bilderberg non ci sono gli staff di supporto, o gli interpreti, o i dossier preparati: i bluff si notano subito, la figuraccia è dietro l’angolo.
- La ritrosia di ministri e politici a partecipare non sembra una decisione convinta e meditata, ma una ammissione di provincialismo e la scelta di stare nella globalizzazione da spettatori, invece che da protagonisti.
Il governo Meloni, ma più in generale l’élite italiana, da qualche anno diserta i consessi internazionali come il forum di Davos, in corso in Svizzera. Lo fa per le ragioni sbagliate, cioè compiacere la parte più complottista del proprio elettorato, e non per l’oggettivo declino di rilevanza di questi momenti di relazioni tra i vertici del mondo occidentale.
A Davos va soltanto il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara. Difficile capire il criterio della scelta, visto che le scuole sono uno dei pochi ambiti della vita pubblica che ministri, banchieri centrali e finanzieri di ogni genere non discutono tra le Alpi svizzere.
Per un pezzo di elettorato di destra, il forum di Davos rappresenta uno dei centri mondiali del grande complotto, là dove è stata elaborata l’idea di usare la pandemia da Covid come occasione per un “grande reset”.
La parte vera è che esiste una Global Reset Initiative, cioè un tentativo di costruire un dibattito sul futuro del mondo dopo il Covid lanciato dal World economic forum: marketing per dare un senso al Forum tra un incontro annuale e l’altro che i complottisti hanno scambiato per una sorta di regia della pandemia.
Giorgia Meloni di sicuro non pensa queste cose ma ha cercato i voti di tutti gli scettici sulla gestione del virus.
Per non sembrare “incoerente”, quindi, Meloni non va in uno dei punti di incontro internazionali più rilevanti dove non si prendono decisioni, ma si costruiscono relazioni e si diffondono impressioni di credibilità e di attenzione ai possibili partner (o avversari).
Da qualche anno i politici italiani sono rimasti vittima delle proprie narrazioni e rifiutano inviti a questo genere di consessi, al massimo si dedicano a incontri a porte chiuse ma niente che li possa accomunare alla “élite” globale.
All’ultimo meeting Bilderberg di Washington, con tutti i protagonisti della discussione su Nato, Russia e Cina, non c’era un solo politico italiano. Alla riunione precedente, nel 2019, soltanto Matteo Renzi.
Nel 2016 Luigi Di Maio aveva provato ad affacciarsi a un evento della Commissione Trilaterale, peraltro ospitato dal’Istituto studi di politica internazionale di Milano che è al di sopra di ogni polemica, ma le reazioni dentro i Cinque lo avevano fatto desistere dal riprovarci.
Se questa scelta minimalista dell’élite italiana fosse una forma di distacco da certi rituali che si sono consolidati durante la Guerra fredda, quando l’obiettivo era compattare un campo occidentale che oggi non è più al comando della globalizzazione, sarebbe una scelta legittima. Così come se i politici italiani dicessero “preferiamo lavorare”.
Ma in patria non si perdono una passerella, per quanto usurata e novecentesca, che si tratti del forum Ambrosetti o dell’assemblea annuale di Confindustria. E neppure disdegnano le occasioni di sembrare ben inserti e credibili a livello internazionale: Giorgia Meloni è stata cooptata dall’Aspen Institute Italia, da Giancarlo Giorgetti ad Adolfo Urso è un susseguirsi di pellegrinaggi a Washington.
A Davos o al Bilderberg, però, non ci sono gli staff di supporto, o gli interpreti, o i dossier preparati: è tutto connessioni personali, preparazione individuale, rapidità di interazione, o semplicemente chimica. I bluff si notano subito, la figuraccia è dietro l’angolo.
La ritrosia di ministri e politici a partecipare, insomma, non sembra una decisione meditata, ma una ammissione di provincialismo e la scelta di stare nella globalizzazione da spettatori, invece che da protagonisti.
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