Giorgia Meloni si caratterizza per uno stile spesso considerato prudente, cauto, ambiguo. Negli ultimi mesi, però, pur mantenendo un passo felpato, la premier ha scommesso su uno scenario ben preciso che rende più difficile l’equilibrismo dei primi anni di governo. Per molti versi,

Meloni ha gettato la maschera. La premier sembra convinta che il quadro di frattura tra Europa e Stati Uniti d’America sia destinato a ricomporsi nel medio periodo. Non crede a chi sostiene la tesi del totale disimpegno americano mentre presta ascolto a chi sottolinea che, in ambito militare, non si potrà prescindere da Washington per molto a lungo.

Intorno a questo assunto costruisce la propria politica estera. Ne è una prova la recente intervista al Financial Times in cui la premier ha ribadito la sua volontà di far da ponte con la Casa Bianca. Ne consegue che Meloni non crede nella possibilità di un riarmo autarchico europeo né in forma di autonomia strategica sul piano tecnologico. Di qui l’atteggiamento attendista nella coalizione dei volenterosi che è in linea con quanto suggerito da Donald Trump.

Non disturbare Trump

Il presidente americano non vuole gli europei schierati con i soldati in Ucraina, non ritiene utili i leader del Vecchio Continente al tavolo delle trattative, giudica con fastidio le iniziative dei paesi europei per cercare di condizionare il rapporto con Vladimir Putin.

Nella visione di Washington, la pace è una questione tra Trump, Putin e Volodymyr Zelensky. L’intendenza europea seguirà. Ecco che allora la rinuncia di Meloni a una missione di assistenza all’esercito ucraino rappresenta un favore alla Casa Bianca, una postura tesa a non disturbare il manovratore oltre che a evitare perdite di consenso sul piano domestico.

Meloni crede in una Nato che, pur rimaneggiata negli equilibri, resta il perno della difesa occidentale e per questo alza il sopracciglio di fronte a chi vorrebbe di fatto costituire una alleanza militare tutta europea. Lo stesso vale per i dazi, dove la premier frena rispetto a una reazione dura dell’Ue verso il protezionismo trumpiano.

Non vuole una escalation di dazi perché sembra credere nella possibilità di un più ampio accordo commerciale nei prossimi mesi tra europei e americani. La confusione creata dagli annunci di Trump non aiuta a sostenere questa tesi nel dibattito pubblico, ma è possibile che il presidente alla fine sia più incline all’accordo che a una guerra commerciale perenne che rischia di danneggiare anche l’America. Lo scambio potrebbe avvenire su un allentamento della regolazione sui servizi digitali che andrebbe a vantaggio della prima fila del capitalismo americano oppure sull’innalzamento di ulteriori barriere protezionistiche degli europei nei confronti della Cina.

I rischi di una scommessa

Si vedono due modi di reagire a Trump: quello dei leader che vogliono rendere subito la pariglia alla Casa Bianca, con un confronto muscolare per cercare di limitare l’aggressività americana; quello di chi, come Meloni, preferisce lasciare a Trump il tempo di onorare le promesse elettorali, dar lui dei segnali di buona volontà ai fini di un futuro patto e poi avviare una trattativa.

Entrambe le modalità corrono dei rischi: il primo di avviare un braccio di ferro che può essere più dannoso per l’Europa che per gli Stati Uniti; il secondo che Trump non intenda fermarsi ad azioni dimostrative o temporanee e voglia invece alterare in modo sostanziale la relazione transatlantica nel lungo periodo.

Inoltre, la premier con questa inerzia ritiene forse di poter ricavare qualche sconto all’Italia rispetto alle merci sottoposte ai dazi, mostrando scetticismo verso una capacità di reazione comune dell’Ue e credendo che Trump possa perseguire un approccio bilaterale.

Meloni, dunque, scommette su uno scenario futuro ben preciso. Ne è un indizio anche il richiamo spesso fatto dalla premier al Mediterraneo come primario interesse nazionale dell’Italia. Ella sembra ritenere che in Ucraina la partita sia in primis tra Trump, Putin e paesi dell’Est.

Orizzonte Mediterraneo

L’Italia, un paese mediterraneo e senza armi nucleari, può dare solo un contributo minimo. Invece, appare convinta che nuovi fronti della politica estera, anche americana, possano aprirsi tra Medio Oriente e Mediterraneo.

Due indizi in tal senso sono la ripresa delle azioni militari americane verso gli Houthi e la nuova centralità dei paesi arabi, con cui l’Italia ha rafforzato la partnership economica. Se tutto questo si realizzerà, la premier potrà dire di aver vinto la sua mano politica. Sempre che l’impatto dei dazi non metta prima in crisi l’economia italiana.

Se invece la spaccatura transatlantica perdurerà e la guerra in Ucraina non si risolvesse rapidamente, allora l’Italia rischierà di essere una potenza europea ridimensionata e rimasta a metà del guado di una divisione che non si colma. In ogni caso, sia per volontà di Trump sia degli alleati europei che per perseguire tale scommessa, il governo Meloni dovrà accrescere la spesa in difesa, oggi lo scoglio maggiore per resistenze politiche e ristrettezze di bilancio.

Forse è per questo motivo, ai fini di distrarre l’opinione pubblica, che la premier ha sfoderato prima l’attacco al Manifesto di Ventotene e poi ha rinverdito la promessa della riforma del premierato? Sembrano la coperture, invero ridotte, da usare mentre è impegnata nella complicata scommessa della politica internazionale.

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