Se guardiamo al fenomeno della disuguaglianza in una prospettiva storica, notiamo che a partire dagli anni Ottanta quella tra paesi decresce mentre quella in seno ai paesi aumenta, dopo essere stata a lungo stazionaria. La globalizzazione ha rimescolato le carte: non guarda alle nazioni ma agli individui. La redistribuzione della ricchezza di questi vent’anni ha favorito l’emergere di nuove classi ricche o medie in ogni paese. Così ha ridotto lo scarto tra nazioni ma ha aumentato le distanze all’interno, anche dei paesi sviluppati, provocando le reazioni che conosciamo.

La grande contraddizione

All’interno degli Stati Uniti, ad esempio, dopo circa 40 anni di relativa stabilità, la società americana sembra aver cancellato i progressi di uguaglianza iniziati all’indomani della crisi del 1929 e dopo la Seconda guerra mondiale. È proprio alla classe lavoratrice “bianca”, declassata e impoverita, che si rivolge ora la propaganda populista e trumpiana. Con il “grande raddoppio” della forza lavoro (l’entrata nel mercato del lavoro dell’ex mondo del socialismo reale che ha raddoppiato la manodopera disponibile) si prevedeva un abbassamento dei salari per i meno qualificati nei paesi ricchi ma non che ciò si sarebbe rapidamente allargato anche alle posizioni mediane e ai quadri.

Così il lavoro nella manifattura, cioè la vera economia reale, si è dimezzato negli Usa, più che dimezzato in Gran Bretagna e quasi dimezzato negli altri paesi europei. Nel contempo i salari del top management globale schizzavano verso l’altro, favoriti dai nuovi guadagni realizzati e causando molti malumori nella popolazione. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale lo scenario è contraddittorio: la disuguaglianza è cresciuta in tutti i paesi occidentali ma anche in Cina e India, mentre (almeno fino a prima della pandemia) è diminuita in Brasile, Turchia, Iran, molti paesi africani, Cile, Perù, Tailandia e così via.

La paura dei ceti medi

In tale incertezza globale nasce la già citata “paura del declassamento” dei ceti medi occidentali, mentre in parallelo si forma – e diviene influente – l’opinione insoddisfatta delle nuove classi medie dei paesi emergenti, che chiedono di più. In Europa le ansie della classe lavoratrice e dei ceti medi si sono tramutate in vere sorprese elettorali. Colpiti dalla crisi costoro temono di essere lasciati indietro e si domandano se i propri figli potranno mantenere il medesimo tenore di vita. Dal canto loro i nuovi ceti emergenti (quella che in Brasile viene chiamata la classe C, su una scala A - D), si sentono ancora troppo deboli e pretendono rassicurazioni sul poter rimanere al livello appena acquisito e magari migliorarlo.

La novità è che la diseguaglianza oramai si vede a occhio nudo e innesca reazioni. È in corso un cortocircuito globale su due fronti: sul fronte sud l’improvviso arricchimento in una popolazione abituata all’eguaglianza della penuria, man mano che aumenta produce risentimento sociale. Le classi diseredate vedono la ricchezza avvicinarsi, favorire un élite nazionale ma senza che la maggioranza ne possa ancora godere appieno. In assenza di welfare, corruzione, favoritismi, burocrazia: tutto diviene intollerabile. È il caso della Cina e dell’India, ma anche del Brasile appena è rallentata l’economia l’anno scorso. Sul fronte nord il rancore si diffonde con il taglio del welfare, il propagarsi di mini-jobs non garantiti come in Germania o la gig economy dei delivery ad esempio, il precariato e lo sviluppo della classe dei “working poors”, coloro che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e devono fare più lavori. È la “frattura sociale” che aveva intravisto Jacques Chirac nella sua campagna presidenziale del 1995.

Democrature

Vecchi e nuovi ceti medi provocano la crisi su entrambi i fronti con conseguenze politiche: per questo è a tali ceti che deve guardare chi governa, sia a nord sia a sud del mondo. Vanno rimarcati due aspetti preoccupanti: specialmente in Occidente le classi medie sono anche coloro che pagano le tasse e formano la colonna vertebrale delle democrazie. Se tale equilibrio va in pezzi, il danno è colossale. Nel contempo si sta costituendo una sorta di “non-classe”: quella degli inoccupati. Si tratta di coloro che perdono il lavoro dopo i 50 anni senza più speranza di ritrovarne, dei giovani inattivi (Neet), di molte donne. Si tratta di «esclusi non rappresentabili», secondo l’analisi di Pierre Rosanvallon.

Pur non raffigurando un’assoluta novità nella storia, la diseguaglianza è divenuta una questione cruciale. Per tali ragioni Francis Fukuyama ha parlato di “nuova lotta di classe”, che concerne questa volta il ceto medio globale. Quest’ultimo complessivamente ammonta a circa tre miliardi di persone: è circa il 40 per cento che detiene il 14 per cento delle risorse disponibili. Non si tratta tuttavia di una classe omogenea: gli esperti la calcolano in base ad un reddito per persona che varia tra i 10 e i 100 dollari al giorno disponibili. Come si vede, una forchetta assai larga, pensata per mettere assieme la classe media occidentale e quella emergente del sud.

Secondo il Fondo monetario internazionale di questi tre miliardi circa la metà sono asiatici, il 25 per cento europei, il 10 per cento nordamericani, l’8 per cento sudamericani, il resto africani e mediorientali (per l’Africa nera si usa un’altra forchetta: tra i 2 e i 20 dollari al giorno). Si tratta di quella porzione di popolazione mondiale in bilico tra ribellione e adesione all’autoritarismo delle “democrature”. In entrambi i casi l’obiettivo è sempre lo stesso: difendere il proprio fragile status. Il sentimento prevalente in seno a tale universo, sia nei paesi ricchi che in quelli emergenti o poveri, è una sensazione di “precarietà”.

L’economista francese Thomas Piketty ha fatto fortuna con un libro - Il capitale nel XXI secolo – nel quale mette l’accento sulle politiche necessarie a diminuire la disuguaglianza. «Le classi medie - scrive - hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro (in tasse, tariffe ecc.). Tali disuguaglianze alimentano i populismi di destra e di sinistra come anche il declino nell’autorappresentazione sovranista». La sua conclusione è semplice: «si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze e rovesciare il rapporto di forza. È sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato: nel primo ciclo di globalizzazione, tra Ottocento e 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale».

Tuttavia numerosi suoi colleghi non credono che ciò sia possibile: la degradazione dei rapporti sociali sarebbe ormai troppo avanzata per essere corretta. Solo la pandemia ha dato un colpo di freno a tale divaricazione. Per alcuni esperti l’unico esito sarà la reazione violenta o rivoluzionaria oppure un’involuzione autoritaria altrettanto violenta, dal momento che regimi dispotici hanno capito come partecipare alla globalizzazione senza pagare il prezzo della democrazia. Com’è noto la conseguenza finale di tale processo sarebbe la crisi del sistema liberal-democratico. Tra le due posizioni vi sono quelle più moderate e ottimistiche che si rifanno alla vecchia teoria ma ancora vitale del “flat world”, il mondo divenuto piatto di Thomas Friedman: la globalizzazione e le nuove tecnologie avranno comunque un effetto livellante per tutti. L’innovazione sociale e tecnologica possiede una forza ugualitaria che alla fine prevarrà. Il dibattito è aperto.

Dopo decenni di sganciamento tra economia liberista e le esigenze della società, ci si chiede come possa quest’ultima mantenere un atteggiamento razionale e solidaristico, quando il grado di incertezza e insicurezza è aumentato a livelli intollerabili. Sapranno le società resistere alle tentazioni dettate dalla disperazione e dal malcontento, mentre il sistema prova a correggersi? C’è ancora tempo? Quale spazio negoziale esiste tra le regole del mercato globale e l’aspirazione delle persone al benessere e alla giustizia? In una società globale dove tutto si scambia, si monetizza, si banalizza, la difesa della democrazia non può che iniziare da tali domande.

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