Il rapporto tra esecutivo, legislativo e magistratura è spesso rappresentato in termini di conflitto: uno cerca di addomesticare o scavalcare l’altro. C’è però una chiave di lettura diversa, che permette di intravvedere in queste innegabili tensioni un nuovo fermento democratico
Si è soliti rappresentare la dialettica tra poteri in termini di conflitto: l’esecutivo che cerca di domesticare la magistratura, il parlamento che viene soverchiato dalle iniziative del governo, i giudici che giocano un ruolo d’interdizione rispetto alle politiche dell’esecutivo.
Sembra così che gli stati democratici siano finiti in un circolo vizioso, che ne drena i pochi residui fluidi vitali. C’è però una chiave di lettura diversa, che permette di intravvedere in queste innegabili tensioni un nuovo fermento democratico. Un fermento per giunta accompagnato da una quanto mai necessaria consapevolezza circa la trasformazione profonda di ciò che va sotto il nome di “democrazia”.
Scriveva qualche giorno fa Giorgia Serughetti che il conflitto politico tende oggi a spostarsi al di fuori delle sedi istituzionali, nel senso di una perdita di efficacia e mordente della rappresentanza parlamentare. E questo è particolarmente vero per quanto riguarda il vistoso ingresso del giudiziario nella vita politica degli stati democratici. Serughetti soggiungeva, a ragione, che non sarà il potere dei giudici a fermare, da solo, la torsione illiberale in atto. Mi domando tuttavia se il giudiziario sia davvero “da solo”, dato che perlopiù esso agisce per impulso di attori sociali consapevoli e motivati, che si rivolgono alla magistratura con obiettivi precisi.
Errore di prospettiva
Questo è l’aspetto cui occorre prestare attenzione per evitare un duplice e diffuso errore di prospettiva. Da un canto si rafforza una visione romantica del giudiziario come illuminato argine all’azione liberticida del governo. Dall’altro, all’opposto, si raffigurano i tribunali come invasi da una compulsione sediziosa e abusiva, proclive al golpe. La realtà è diversa e ben più placida: il potere giudiziario non è che uno dei canali mediante cui i cittadini partecipano al processo democratico.
È pur vero che oggi si assiste a una crescente “giuridificazione”, nel senso di un ricorso sempre più puntuale e frequente dei cittadini allo strumento della legge per vedersi riconosciuti diritti e per determinare cambiamento sociale. Il fenomeno è più che cospicuo, se si pensa che, per fare pochi recenti esempi, le leggi sulla tutela dei rider, la revisione dell’adozione in casi particolari o le linee guida sulla legge 40 hanno alle spalle massicci interventi delle Corti.
Del pari, si procederà alla revisione della famigerata lista dei paesi sicuri in forza del robusto intervento di più d’un tribunale, che via via ne ha messo in questione la legittimità e la natura di vincolo. Sarà tuttavia opportuno ricordare che i tribunali, in questi e altri casi, non muovono per iniziativa spontanea, ma sono convocati come strumento attivo di trasformazione democratica.
La volontà del popolo
Inoltre, dietro l’azione di singoli cittadini che avviano procedure legali ci sono organizzazioni della società civile e gruppi di interesse capaci di formare l’opinione pubblica, oltreché di esercitare un’influenza più risoluta che individui isolati. Insomma, dietro l’opera del giudiziario sta l’iniziativa organizzata e brulicante della cittadinanza, consapevole del tipo di impegno sociale e politico che l’intera procedura richiede. Sempre più spesso, questa iniziativa organizzata è all’origine delle più importanti riforme introdotte dai parlamenti.
Ora, se non c’è dubbio che detta transizione politica comporti un ridimensionamento della rappresentanza parlamentare, non c’è neppure dubbio che essa sia pienamente democratica: il parlamento non esaurisce né le forme né i limiti entro i quali, secondo la nostra Costituzione, il popolo esercita la sua sovranità.
La democrazia consiste proprio in questa contrastata dialettica, che il dibattito pubblico, giocoforza, tende ad affrescare come scontro letale tra poteri, tendenti a limitarsi reciprocamente. L’idea che sta al cuore della democrazia è proprio l’esistenza di un limite che nessun potere può flettere – un limite intrinseco al sistema, che entro la cultura politica di un paese tracima nella consapevolezza condivisa per cui la democrazia non è compatibile con la cessione dei pieni poteri ad alcun organo, eletto o meno.
Dunque, purché non sguaiata e miopicamente settaria, ben venga la polemica anche feroce e puntuta tra organi dello stato, che mettono in questione le reciproche azioni e i limiti delle loro sfere d’intervento. Se c’è qualcosa che da questi scontri sarà bene apprendere è che, in democrazia, un potere potrà sempre agire da limite su un altro potere e che nessuno di essi, eletto o meno, da solo incarna e interpreta la volontà del popolo.
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