- Quanto può durare una cultura, più ancora una società, se la generazione dei più giovani arriva a concepirsi come l’ultima a causa dell’ansia da calamità ambientali?
- “Generazione” è una parola che rimanda anche alla riproduzione della vita. Una società che non fa più figli, che ne fa sempre di meno, sembra dire a gran voce che qualcosa si è rotto nel rapporto con il futuro.
- È questo che connette in profondità le due crisi: l’indifferenza verso l’incombere della catastrofe ha radice nella stessa difficoltà a proiettarci nel futuro che frena i desideri di genitorialità.
L’Italia si affaccia sul nuovo anno con un record negativo di nascite, mentre un collettivo di giovani che si è dato il nome di Ultima Generazione si sente costretto a compiere un gesto eclatante come la vernice sulla facciata del Senato per richiamare l’attenzione della politica sul rischio del «collasso ecoclimatico».
Alcuni anni fa il filosofo Mark Fisher si chiedeva: «senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?». Lo spunto era il film di Alfonso Cuarón, I figli degli uomini, con il suo scenario di immaginazione distopica in cui l’umanità si ritrova incapace di mettere al mondo nuovi nati su una terra devastata dalla catastrofe ecologica.
Qui, secondo Fisher, l’infertilità di massa funziona come metafora dell’esaurimento di ogni spinta verso il futuro. Ma c’è, nel racconto, anche l’evocazione di un nesso più concreto che lega due tra le maggiori sfide di questo tempo: la crisi demografica e la crisi climatica.
Quanto può durare una cultura, più ancora una società, se la generazione dei più giovani arriva a concepirsi come l’ultima a causa dell’ansia da calamità ambientali? A questo richiamano l’attenzione le attiviste e gli attivisti per clima.
Ma “generazione” è una parola che rimanda anche alla riproduzione della vita, ed evoca il problema del rapporto tra “noi” che siamo in vita e l’Altro distante nel tempo, che possiamo solo anticipare nel pensiero. Una società che non fa più figli, che ne fa sempre di meno, sembra dire a gran voce che qualcosa si è rotto nel rapporto con il futuro.
È questo che connette in profondità le due crisi: l’indifferenza verso l’incombere della catastrofe, il “Don’t look up!” con cui ci si illude di allontanare il pericolo, ha radice nella stessa difficoltà a proiettarci nel futuro che frena i desideri di genitorialità.
Per una minoranza di persone, non fare figli è una scelta etica, a beneficio di un pianeta già sovrappopolato. Ma è soprattutto la precarietà del lavoro e delle condizioni di vita, unita alla percezione dell’assenza di sostegno sociale, a causare il calo delle nascite. Un quadro problematico, a si aggiunge oggi sempre più la paura di costringere un bambino ad affrontare l’apocalisse climatica.
Ciò che manca, a questa società incapace di rigenerarsi, è la fiducia nella possibilità del cambiamento e nel nostro potere di produrlo collettivamente. È più facile, è stato scritto, immaginare la fine del mondo che la fine di un ordine sociale ingiusto e di un rapporto predatorio con le risorse naturali. Perché manca una politica capace di parlare di futuro, infrangendo il senso dominante di impotenza.
Serve una politica capace di ritrovare il significato della «promessa» di cui parlava Hannah Arendt: un esercizio di responsabilità verso il tempo a venire che getti «isole di sicurezza» nell’«oceano dell’incertezza».
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