- Negli ultimi venti anni, la strategia degli Stati Uniti in Afghanistan non è stata semplicemente quella di prevenire un altro attacco terroristico proveniente da islamisti di base in quel Paese, ma quella di esportare democrazia.
- C’era nell’idea di promuovere un cambiamento di regime un errore di fondo: l’idea che la democrazia fosse una invenzione occidentale.
- Il solo fatto che si sia pensato a lungo di esportarla lascia intendere che l’Occidente la consideri una sua proprietà intellettuale.
La mattina dell’11 settembre 2001 mi chiamò al telefono un’amica per dirmi che due aerei di linea americani si erano infilati nei grattacieli del World Trade Center. Ero arrivata da pochi mesi negli Stati Uniti per iniziare il dottorato di ricerca in Scienze Politiche.
Un mese dopo il presidente George W. Bush ordinò di attaccare l’Afghanistan dove i terroristi di Al Qaeda, protetti dal regime talebano, avevano le loro basi. In quegli anni, noi studenti di relazioni internazionali organizzammo conferenze, dibattiti e seminari per discutere la nuova politica estera americana, la cosiddetta dottrina Bush.
La dottrina Bush si fondava su almeno tre principi: non fare distinzione tra i terroristi e gli stati che danno loro protezione; attaccare i terroristi prima che possano attaccare gli Stati Uniti – principio che legittimò definitivamente il concetto americano di guerra giusta e preventiva; e perseguire un cambiamento di regime instaurando un governo democratico.
Lo scorso 16 agosto, il presidente Joe Biden ha dichiarato di sostenere fermamente la sua decisione di ritirare le truppe dall’Afghanistan dicendo che l’obiettivo degli Stati Uniti in quel Paese era stato raggiunto. Il presidente, che da senatore democratico sostenne la guerra contro i talebani nel 2001, sembra non ricordare più la Storia.
Negli ultimi venti anni, la strategia degli Stati Uniti in Afghanistan non è stata semplicemente quella di prevenire un altro attacco terroristico proveniente da islamisti di base in quel Paese, ma quella di esportare democrazia. In questo senso, l’obiettivo americano di costruire un Afghanistan democratico non è stato mai raggiunto.
Esportare la democrazia
C’era nell’idea di promuovere un cambiamento di regime un errore di fondo: l’idea che la democrazia fosse una invenzione occidentale. Il solo fatto che si sia pensato a lungo di esportarla lascia intendere che l’Occidente la consideri una sua proprietà intellettuale. Tale fraintendimento non nasce solo dalla nostra arroganza ma dal fatto che il concetto di democrazia è nato nell’antica Grecia.
Eppure, come scrisse il premio Nobel per l’economia Amrtya Sen, i greci non hanno concepito l’idea di democrazia da soli. Sono venuti in contatto con altri popoli e civiltà – quella egizia, persiana, indiana – che a dispetto degli stereotipi coltivavano da secoli la tolleranza e il dialogo interreligioso.
Da diverso tempo, la colpa per i falliti tentativi delle amministrazioni americane di esportare democrazia in Afghanistan viene attribuita alla cultura musulmana che molti considerano antidemocratica (lo ribadì molti anni fa anche il politologo americano Samuel Huntington nel saggio Scontro di civiltà). Incolpare la cultura però è fuorviante, è un alibi per non riconoscere le cause storiche dei propri fallimenti.
Vale la pena ricordare che mentre nel sedicesimo secolo Giordano Bruno veniva messo al rogo in Campo dei Fiori a Roma, l’imperatore musulmano Akbar codificava la libertà religiosa e i diritti delle minoranze e accoglieva alla sua corte intellettuali di culture diverse.
L’Occidente si ritiene da sempre campione di democrazia. In realtà la rivendica per sé ma non è disposto a condividerla con gli altri – soprattutto nelle decisioni che riguardano le grandi sfide globali come la pace e la sicurezza, la povertà, le crisi economiche, climatiche e sanitarie. Considera tutti coloro che si oppongono alle sue decisioni barbari e selvaggi. Definisce le sue guerre giuste e necessarie e chiama quelle degli altri inutili spargimenti di sangue.
Il fallimento del nation building in Afghanistan si deve attribuire anzitutto alla creazione di un governo centrale e unitario (rivelatosi nel tempo estremamente corrotto) invece di un governo federale e consociativo che avrebbe dato voce alle diverse anime ed etnie del Paese.
Lo stesso errore è stato compiuto qualche anno più tardi in Iraq – anche lì una guerra definita giusta e preventiva, mirante ad un cambio di regime in senso democratico e appoggiata dalla maggioranza del Congresso americano. In Iraq si preferì lasciare fuori dal nuovo governo sciita la minoranza sunnita che aveva governato negli anni della dittatura di Saddam Hussein.
Il risultato fu che quando l’Isis conquistò Mosul nel 2014 – dopo che l’amministrazione Obama aveva iniziato un primo ritiro delle forze americane – l’esercito iracheno capitolò e i sunniti scontenti e marginalizzati aderirono in massa allo Stato islamico.
Altro errore in Afghanistan fu quello di presentare la guerra al mondo come un intervento umanitario volto a liberare le donne afghane dalla interpretazione integralista della legge coranica – sharia – imposta dai talebani.
Una guerra combattuta per interessi geopolitici camuffata da intervento umanitario non può che essere fallimentare se include negli obiettivi la creazione di un regime democratico. I talebani ebbero gioco facile nel presentare ai loro connazionali l’idea di democrazia promossa dagli Stati Uniti come corrotta e autoreferenziale.
La Fuga
Veniamo all’oggi. L’amministrazione Biden non si è ritirata dall’Afghanistan, è fuggita. Un ritiro responsabile avrebbe richiesto più tempo e maggiore preparazione, ma si voleva onorare il ventesimo anniversario dell’11 settembre dichiarando una volta per tutte “missione compiuta.”
Era impensabile che gli americani rimanessero in Afghanistan per sempre ma andarsene nel pieno della campagna militare talebana (da sempre ciclica e portata avanti solo nei mesi estivi dopo la raccolta dei papaveri da oppio) è stato disastroso. I talebani si sono ripresi l’Afghanistan in soli dieci giorni, occupando la prima provincia il 6 agosto ed arrivando alle porte di Kabul il 15.
L’amministrazione Biden era convinta ci sarebbero voluti anni, eppure era da tempo che i miliziani portavano avanti una campagna di omicidi contro attivisti per i diritti umani, giornalisti e leader religiosi moderati. Le donne afghane, che gli americani dichiaravano di voler proteggere, sono state lasciate improvvisamente sole.
I talebani del 2021 si dicono molto diversi da quelli di venti anni fa. Il loro portavoce, Zabihullah Mujahid, si fa intervistare alla tv afghana da una giornalista donna – credo più per dimostrarsi tollerante ed inclusivo che per ragioni di sostanza.
Dichiara che le donne in Afghanistan non saranno costrette ad indossare di nuovo il burqa, che non verrà loro negata l’istruzione, che avranno posizioni di rilievo nel nuovo governo dell’Emirato islamico, che i loro diritti verranno rispettati all’interno della legge coranica.
A mio avviso le dichiarazioni di Mujahid sono un ossimoro. La sharia secondo l’interpretazione talebana è integralista. Le donne sono costrette a sposarsi, lasciano la scuola a dieci anni, non possono uscire di casa senza che un guardiano maschio le accompagni, vengono giustiziate pubblicamente se giudicate adultere. Giungono già ora notizie di matrimoni forzati e di liste di donne nubili o vedove di età compresa tra i 16 e i 45 anni – tra loro ci sono dottoresse, ricercatrici, giornaliste, intellettuali, docenti universitarie, studentesse – che i talebani vogliono far sposare ai loro miliziani.
Cosa succederà
Cosa accadrà ora? I talebani, già legittimati a livello internazionale dall’accordo del 2020 con l’amministrazione Trump, si stanno muovendo a livello diplomatico per instaurare rapporti con i grandi nemici dell’Occidente, soprattutto Cina e Russia. Puntano ad essere riconosciuti come stato sovrano. Il presidente Biden aveva dichiarato dopo il suo insediamento che gli Stati Uniti erano tornati, che avrebbero fatto la loro parte nelle grandi crisi internazionali, che era tornato di moda il multilateralismo.
Il ritiro caotico dall’Afghanistan, portato a termine nonostante il parere contrario degli alleati, mina la credibilità di questi intenti, riapre le ferite diplomatiche provocate da quattro anni di amministrazione Trump, lascia il campo libero a Putin e a Xi, che dialogano con il Mullah Baradar pur temendo il fondamentalismo nei propri confini, e al presidente turco Erdogan che si propone come il grande mediatore nella fase di transizione.
Nel “nuovo disordine mondiale” gli Stati Uniti sono sempre più rivolti al loro interno e indifferenti ai destini di altri popoli. Da studentessa di dottorato ho detestato la dottrina Bush, venti anni più tardi, da cittadina americana, non mi riconosco nella dottrina Biden.
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