L’ex presidente della Sicilia Totò Cuffaro, condannato per favoreggiamento alla mafia, è tornato prepotentemente sulla scena politica e tratta con l’ex premier Matteo Renzi sulle elezioni europee. Nino Di Matteo, magistrato della trattativa stato-mafia, bersaglio permanente di rancori e vendette
Chi sale e chi scende nella Sicilia sottosopra che dimentica le sue ferite, chi comanda e chi viene messo sotto il tacco, bastonato, nell’Italia dove il tempo confonde i ricordi e cancella macchie che sembravano indelebili? Chi è passato da un carcere o affogato in qualche vergogna oggi è cercato, protetto, ossequiato. Chi ha inseguito verità per trent’anni è diventato preda, braccato da ex imputati eccellenti e commissioni parlamentari, da senatori rancorosi, dileggiato ogni giorno, costretto a difendersi da tutto e da niente.
Continuando così, in questo clima infame di riscrittura dei fatti e della nostra storia, fra poco qualcuno arriverà con naturalezza a chiamare la strage di Capaci «la disgrazia», come ha fatto con me una volta Antonina Brusca, dama di San Vincenzo e madre di quel Giovanni che sulla collinetta ha premuto il pulsante che ha scatenato l’inferno.
È un’Italia meschina, vendicativa, che ci riserva sorprese che proprio non ci aspettavamo.
Ci sono due casi recenti che raccontano questo mondo capovolto, due vicende che si sono incrociate in questi ultimi giorni fra Palermo e Roma.
La “punizione” per Nino Di Matteo
Una è quella di Totò Cuffaro, l’ex presidente della Sicilia condannato per favoreggiamento alla mafia, che ha conquistato il palcoscenico incontrando l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi per correre insieme a lui verso l’Europa. E poi quella di Nino Di Matteo, il magistrato della famosa trattativa stato-mafia che vogliono “punire” per ciò che pensa e ciò che dice sulle contorsioni della Cassazione. Uno sale e l’altro scende, uno dà carte e l’altro è sotto attacco, il primo guida un partito (la nuova Democrazia cristiana), il secondo è guardato come un appestato anche da qualche suo collega.
L’ex presidente è sempre protagonista della politica siciliana e a quanto pare conta qualcosa anche in quella italiana, il sostituto procuratore è bersaglio permanente dell'astio di raffinati giuristi per le sue inchieste sui patti indicibili. Per l’appunto, il mondo alla rovescia. Tanto chi protesta più? Tanto chi si scandalizza più?
E meno male che Totò Cuffaro non doveva fare più politica, che avrebbe trascorso il resto della sua esistenza nell’Africa più lontana. E invece rieccolo qui, promotore di incontri ad alto livello dopo avere consigliato come sindaco alla città di Palermo il suo fedelissimo Roberto Lagalla con il concorso di Marcello Dell’Utri e riallungato le mani sulla regione siciliana in compagnia di Renato Schifani.
E meno male anche che Luca Tescaroli non è più procuratore aggiunto a Firenze ma procuratore a Prato perché chissà che fine avrebbe fatto, un anno fa, dopo l’interrogazione presentata da Maurizio Gasparri al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Chiedeva di mandare gli ispettori negli uffici della procura che stavano indagando sui suoi compagni di partito, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Indagini sulle stragi del 1993.
Per fortuna del senatore Gasparri c’è ancora in giro il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. Così ha riproposto un’altra interrogazione a Nordio per sapere «quali iniziative intenda assumere per verificare l’eventuale sussistenza di responsabilità disciplinari e a tutela della magistratura, della Corte di cassazione e dei suoi componenti».
Di Matteo è colpevole di avere scritto un libro con il giornalista Saverio Lodato proprio sulla trattativa stato-mafia, sostenendo che la sentenza della Suprema corte «contribuisce ad alimentare un pericoloso vento di restaurazione che soffia nel nostro paese e che riguarda purtroppo anche l'ambito giudiziario e della magistratura».
Aria di rappresaglia
C’è aria di regolamento di conti, di rappresaglia contro tutti coloro che per una lunga stagione hanno rappresentato pur in mezzo a contraddizioni una voce altra. Oggi è toccato a Di Matteo, ieri ai magistrati che hanno valutato il famigerato dossier “mafia e appalti” per quello che era, cioè niente di rilevante per spiegare l’uccisione di Paolo Borsellino.
Eppure ritornano personaggi che sembravano definitivamente fuori scena e ritornano improbabili piste sui massacri del 1992, ulteriori deviazioni che si aggiungono ai tantissimi depistaggi già consumati. Ci avviciniamo così, fra meno di due mesi, al trentaduesimo anniversario di Capaci. Il 2022 ci ha lasciato il ricordo della sedia vuota del sindaco Lagalla alle celebrazioni ufficiali, il 2023 ci ha fatto vedere la carica di polizia contro il corteo antimafia. Chissà cosa di brutto ci riserverà il 2024 dell’Italia sottosopra?
© Riproduzione riservata