Non è una novità di oggi l’incapacità dei partiti di esprimere e mediare lo scontento sociale. Questa incapacità di rappresentanza si esprime in disaffezione politica ma anche in una miriade di movimenti sociali dal basso. Che non sono, a loro volta, una novità. Ma, dovendo giocare in un contesto di estrema pluralità di istanze sociali espresse nella rete e in un’assenza di piena rappresentanza partitica, chi porta avanti cause sociali dimenticate dal mainstream ha una vita difficile. Deve quindi inventarsi un modo per essere visibile, nell’eccesso di informazioni dalla vita brevissima, senza scadere a sua volta nella notizia che viene dimenticata il giorno dopo.

Si pensi ai Fridays for Future: raggiunsero una notevole partecipazione popolare nel 2019, poi l’avvento del Covid e la difficile ripresa di manifestazioni che ne seguì fecero scemare l’impatto di un movimento di livello continentale. Nonostante le promesse di cambiamento radicale svanite con il ritorno al solito tran tran, la questione climatica è sempre più incombente. Ma la costruzione del capitale politico e sociale richiede anni, e il momentum sembra svanito.

Oltre alla causa climatica ci sono altre “emergenze” strutturali che la politica sembra non essere in grado di affrontare. Si pensi alla migrazione, al razzismo o alla discriminazione di genere. Si tratta di questioni di enorme complessità materiale e sociale, di fronte alle quali l’attivismo sociale si disperde in mille rivoli e sembra condannato all’irrilevanza. È anche per ribellarsi a questo rischio di irrilevanza che talvolta alcuni movimenti sociali ricorrono ad azioni di disobbedienza civile (o incivile): esaurite tutte le opzioni ordinarie e legali, la disobbedienza può sembrare l’ultima strada da percorrere.

È legittimo disobbedire alla legge per un motivo politico o morale? Dobbiamo presupporre che in stati legittimi (perché democratici e rispettosi dei diritti) le leggi meritino pieno rispetto. Ma l’imperfezione sostanziale e procedurale dei nostri stati talvolta produce leggi ingiuste nella sostanza o situazioni in cui non tutti sono stati ascoltati, rendendo la condizione meno democratica di quello che dovrebbe essere.

Fattori di cambiamento

Di fronte a queste ingiustizie, a volte la disobbedienza civile sembra l’ultima – l’unica – strada percorribile, perché le altre sono state percorse senza successo. La disobbedienza civile consiste in una violazione della legge, fatta in pubblico, per protestare contro un’ingiustizia. Sono famose le azioni di Gandhi, Rosa Parks e Martin Luther King, che, per combattere il dominio coloniale inglese e la discriminazione strutturale degli stati del sud, violarono alcune leggi odiose (ad esempio, il divieto di autoproduzione di sale o di sedersi nei posti per bianchi negli autobus). Violando la legge in pubblico e accettando la punizione, mostrarono la loro correttezza morale di fronte a una situazione ingiusta. Queste azioni di disobbedienza sono state, assieme ad altri elementi, un fattore di cambiamento collettivo e democratico poiché mandarono un messaggio chiaro e inequivocabile alla maggioranza della popolazione, incosciente o inerte sull’ingiustizia.

Attualmente in molti rivendicano la targa di disobbedienza civile alle proprie iniziative. Ma non ogni azione che si proclama civile è realmente tale. Per capirlo dobbiamo innanzitutto evitare un confronto ingiusto rispetto al passato: sembra facile squalificare il profilo di chi si proclama erede di una nobile tradizione se lo paragoniamo alla grandezza politica, umana e morale degli eroi del passato. Anche gli eroi del passato avevano le loro imperfezioni che la vittoria storica non ci fa più vedere. Ma inquadrare il senso storico della disobbedienza civile è difficile anche perché le azioni di disobbedienza furono più contestate di quanto ora immaginiamo.

In generale, è doveroso ricordare che la disobbedienza civile è una forma di comunicazione democratica, anche se inusuale e scioccante. Ovvero non cerca di imporre un risultato ad altri, bensì cerca di riaprire l’agenda di discussione pubblica. In questo senso, le azioni di Ultima generazione sono una forma di disobbedienza civile perché sono comunicative e non impositive. Infatti, la disobbedienza civile è diversa da altre forme di disobbedienza (incivili e di azione politica diretta, direct actions). Queste ultime, infatti, cercano di ottenere un risultato sostanziale, a prescindere dal consenso democratico. Si pensi, ad esempio, agli atti di sabotaggio di macchinari inquinanti, o alla liberazione di animali.

In Svezia e Belgio l’attivismo radicale climatico ha iniziato a fare azioni di micro sabotaggio, ad esempio, sgonfiando gli pneumatici dei Suv. Atti, al momento, piuttosto modesti nei loro effetti, ma che possono portare a iniziative molto più dirompenti. Analogamente gli attivisti e le attiviste che liberano gli animali dai laboratori di ricerca o dagli allevamenti vogliono innanzitutto sottrarre certi animali da una condizione di sfruttamento e imporre un costo a chi li utilizza.

Due atteggiamenti

Alla luce di queste iniziative, è meglio la disobbedienza comunicativa (civile) o quella operativa (direct action)? Oppure dovremmo rigettare entrambe? Due atteggiamenti opposti sembrano dominare il dibattito pubblico. Da un lato, il legalismo a priori deplora ogni violazione della legge benintenzionata, ma allo stesso tempo è pronto a riconoscere la grandezza degli eroi passati della disobbedienza. Dall’altro, il radicalismo sociale, orfano di rappresentanza politica, è pronto a salutare come sacrosanta la disobbedienza che gli piace, e a condannare quella della parte avversa. Invece, per valutare l’eventuale ammissibilità della disobbedienza abbiamo bisogno di criteri. Criteri fallibili e rivedibili, ma che possono facilitare la discussione pubblica.

Il primo e il più importante è quello sostanziale. La disobbedienza deve basarsi su una causa significativamente importante, tanto da giustificare la violazione della legge. Alcune delle cause di protesta sociale (ambiente, migrazione, rispetto dei diritti fondamentali) sono sicuramente capaci di giustificare la disobbedienza perché riguardano le condizioni di possibilità della vita civile. Ma la buona causa non basta.

Inoltre, bisogna considerare la forma della disobbedienza. Tra la forma violenta e quella non violenta è preferibile la seconda, anche se non ogni protesta pacifica è di per sé giustificata. Ad esempio, il rifiuto di pagare le tasse (resistenza fiscale) può essere fatto in maniera civile, ma rimane comunque poco giustificato perché sembra andare più a vantaggio di chi protesta piuttosto che della collettività.

Infine, bisogna chiedersi se la disobbedienza possa essere efficace. Visto che disobbedire è, in prima istanza, sempre un problema perché è giusto rispettare le leggi in stati legittimi, la disobbedienza, se giustificata da un punto di vista sostanziale e formale, deve anche servire a qualcosa. Bisogna evitare la disobbedienza fine a sé stessa, come se fosse un mero bisogno di esprimere insofferenza sociale o rifiuto dell’autorità.

Con queste considerazioni non si vuole emettere un lasciapassare giuridico per ogni presunzione di disobbedienza legittima: ogni violazione della legge deve passare dal vaglio giudiziario. Ma i criteri suggeriti servono per discutere e informare il dibattito pubblico su come, da cittadini e cittadine, dovremmo vedere la protesta che usa la disobbedienza come ultima risorsa. Un dibattito più maturo e aperto può considerare talvolta ammissibile, giustificato o comprensibile ricorrere alla disobbedienza, pur riaffermando il dovere di rispetto delle leggi.

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