Nel suo discorso alle camere il presidente Sergio Mattarella, pur rispettando le prerogative di parlamento e governo, ha chiaramente indicato quali dovrebbero essere le priorità per chi dovrà «disegnare e iniziare a costruire, in questi prossimi anni, l’Italia del dopo emergenza».

Nella parte più pregnante del discorso il presidente si è soffermato sulla disuguaglianza e sulla precarietà, che con la pandemia sono ulteriormente aumentate.

In un passaggio tanto stringato quanto efficace, Mattarella ha affermato che queste «non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita». Il presidente si è così opposto in modo netto ai cantori dello “sgocciolamento” (trickle down), tra i quali si trovano politici di spicco come il presidente francese Emmanuel Macron.

Secondo questa teoria, i più benestanti sono anche i più produttivi, per cui favorendoli si favorirebbe la crescita con benefici per tutti.

Il frutto di scelte politiche

La teoria dello sgocciolamento ha pochissimo supporto empirico e la stragrande maggioranza dei lavori recenti va nella direzione sottolineata da Mattarella: l’aumento della  disuguaglianza è di fatto quasi sempre un freno alla crescita, salvo che per paesi molto ricchi e che partono da livelli molto bassi, per i quali effettivamente si può osservare una sia pur debole correlazione positiva (per esempio in Finlandia).

È quindi importante che la riduzione delle disuguaglianze torni al centro dell’agenda politica, non solo nel nostro paese. Il World Inequality Lab, il gruppo di più di cento scienziati sociali che fa capo a Thomas Piketty, è da qualche anno impegnato nella raccolta e nell’armonizzazione dei dati sulle disuguaglianze, sia di reddito che di ricchezza, collaborando con autorità fiscali, uffici statistici e organizzazioni internazionali.

Questa enorme mole di dati è a disposizione del pubblico (https://wid.world/). Qualche settimana fa il gruppo ha pubblicato l’edizione 2022 del World Inequality Report che ci consegna un quadro chiarissimo: la pandemia ha esacerbato le disuguaglianze interpersonali non solo di reddito ma, soprattutto, di ricchezza; queste erano già in crescita da almeno trent’anni.

Sia pure in aumento, la disuguaglianza in Europa rimane più bassa che in altre regioni (medio oriente e nord Africa, America Latina e Africa sono le regioni con più alte disparità).

È impossibile riassumere tutto il rapporto, che spazia dalle disuguaglianze nelle emissioni carbone a quelle di genere. Qui vorrei concentrarmi su due aspetti rilevanti per le scelte di politica (economica) europee e italiane. 

Primo, le differenze tra paesi nei livelli e nei tassi di crescita della disuguaglianza non sono legate ai tassi di crescita del Pil; questa mancanza di correlazione conferma che l’aumento della disuguaglianza non è conseguenza inevitabile della crescita, ma il risultato di scelte politiche.

Secondo, mentre i paesi sono diventati più ricchi, i governi si sono progressivamente impoveriti, con la loro ricchezza che si è ridotta. Anche questa tendenza è stata esacerbata dalla pandemia, quando per finanziare le politiche di sostegno all’economia i governi hanno preso a prestito tra il dieci e il venti per cento del Pil, principalmente dal settore privato.

La progressiva erosione della ricchezza della mano pubblica ha implicazioni importanti sulla capacità degli stati di affrontare la disuguaglianza e di affrontare sfide come il cambiamento climatico.

Il costo delle politiche pubbliche

Ha quindi ragione il presidente Mattarella: se si vogliono affrontare le sfide dei prossimi anni, non si può non passare per una significativa riduzione delle disuguaglianze di reddito e ricchezza.

L’“età d’oro” del secondo Dopoguerra, caratterizzata da forte crescita e da enormi progressi nella salute, nell'istruzione e nella mobilità sociale, è associata allo sviluppo della protezione sociale, finanziata da sistemi fiscali fortemente progressivi.

La percepita equità del sistema fiscale, in quegli anni, svolse un ruolo fondamentale nell’accettabilità sociale e politica dell’espansione dei servizi pubblici.

Inversamente, la rivoluzione conservatrice degli anni Ottanta adottò esplicitamente la strategia di “affamare la bestia”, ridurre le tasse soprattutto ai più ricchi per rendere difficoltoso il finanziamento dei servizi pubblici e rendere inevitabile il ritiro dello stato dall’economia.

L’opposizione tra queste due concezioni della politica economica e sociale si ripropone anche oggi: nel decidere come rientrare dal debito pubblico, come contrastare l’inflazione, come finanziare gli investimenti nella transizione ecologica o nel welfare state, la domanda fondamentale è “chi paga”.

Si pensi alle polemiche sulla (timida) proposta di introdurre una patrimoniale in Italia nei mesi scorsi. O ancora, per venire alla cronaca di questi giorni, allo scalpore che hanno creato le parole del governatore della Banca d’Inghilterra che auspicava moderazione salariale per combattere l’aumento temporaneo dell’inflazione.

Molti si sono chiesti per quale motivo non si debba auspicare uguale moderazione da parte dei detentori di profitti: proprio in questi giorni escono i risultati del 2021 e ovunque, dagli Stati Uniti all’Europa i profitti esplodono.

È francamente stupefacente che la proposta di un’imposta straordinaria sugli extra profitti che molte società hanno accumulato in questi anni di crisi, da alcuni auspicata fin dalle prime settimane della pandemia, non si faccia strada nel dibattito politico (non solo italiano, se questo può essere di parziale consolazione).

Tuttavia, bisogna guardarsi dall’essere eccessivamente pessimisti. Su queste pagine abbiamo parlato negli scorsi mesi dell’accordo Ocse sulla tassazione delle multinazionali e sui progressi in sede europea sulla definizione di un salario minimo adeguato.

In entrambi i casi il bicchiere non è necessariamente mezzo pieno; ma non dimentichiamo che oggi abbiamo atti concreti su temi che solo qualche anno fa avrebbero faticato anche solo a imporsi nel dibattito.

Oggi che è di nuovo riconosciuto il ruolo della mano pubblica nel gestire la transizione ecologica e nel ripristinare la sostenibilità economica e sociale del nostro modello di crescita, il tema di un equo finanziamento delle politiche pubbliche, e quindi di una seria politica di contrasto alla disuguaglianza, torna al centro della scena.

È probabilmente su questo terreno che si giocherà nei prossimi anni la sfida tra chi vuole tornare allo status quo precedente alla crisi del 2008 e chi invece ritiene necessario un nuovo paradigma in cui il ruolo dello stato non sia confinato alla gestione delle emergenze.

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