- «Possiamo vederla, papà?», mi chiede Marinette riferendosi alla finale di coppa tra il Real Madrid e il Liverpool. Giunta sera, ci attrezziamo per vedere la finale di coppa, ma una sua frase mi tramortisce: «Tiferò la squadra in cui ci sono più femmine».
- In questi momenti il genitore è improvvisamente confrontato con la complessità del mondo sociale, investito dalla responsabilità di spiegare non soltanto come vanno le cose ma anche perché, e il perché del perché, e il perché del perché del perché.
- Le spiego che quella è la finale del calcio maschile, perché maschi e femmine partecipano a tornei differenti. A quel punto lei vorrebbe sapere perché guardiamo la finale dei maschi e non quella delle femmine.
Avete presente quei dibattiti noiosi sul linguaggio corretto da usare, sulle minoranze, sul ruolo della donna, sulla famiglia, sui valori, quei dibattiti che spesso ci fanno litigare e talvolta sembrano elucubrazioni astratte lontane dai veri problemi, qualunque essi siano? Ebbene, c’è una categoria di persone quotidianamente impegnata nella versione casalinga di un convegno di gender studies o di critical race theory: noi genitori. Peggio ancora se genitori di figlia femmina in una metropoli multiculturale come Parigi. Sabato scorso eravamo in metropolitana quando sono apparsi dei tifosi del Real Madrid, urlanti e festosi in prospettiva della finale di Champions League che si sarebbe giocata la sera allo Stade de France. Mia figlia, che convenzionalmente chiameremo Marinette, dall’alto dei suoi sei anni mi ha chiesto chi fossero quei buffi individui colorati e io le ho detto della partita.
«Possiamo vederla, papà?». Io a dire il vero avevo previsto di procedere nella visione della seconda stagione (1960) di Ai confini della realtà, ma non ho potuto far altro che considerare con soddisfazione tanto spirito d’iniziativa.
Giunta sera, ci attrezziamo per vedere la finale di coppa, con Marinette installata sul divano nella classica posa «frittatona di cipolle - birra ghiacciata» di fantozziana memoria. Inizio a spiegarle i rudimenti del gioco del calcio e le chiedo se ha deciso per chi tifare: Liverpool o Real Madrid. La sua risposta mi tramortisce: «Tiferò la squadra in cui ci sono più femmine».
Ehm, Marinette, c’è una cosa che ti devo dire.
In questi momenti il genitore è improvvisamente confrontato con la complessità del mondo sociale, investito dalla responsabilità di spiegare non soltanto come vanno le cose ma anche perché, e il perché del perché, e il perché del perché del perché.
Allora le spieghi che quella è la finale del calcio maschile, perché maschi e femmine partecipano a tornei differenti. E poi le ricordi che maschi e femmine hanno corporature diverse, ma non è una regola universale, d’altronde Marinette è più alta della maggior parte dei suoi compagni maschi.
A quel punto lei vorrebbe sapere perché guardiamo la finale dei maschi e non quella delle femmine, quindi devi dirle che la gente preferisce guardare il calcio maschile, che è più spettacolare.
E visto che non vuoi indorarle la pillola, specifichi confusamente che i maschi si sono specializzati nel calcio e quindi sono mediamente più bravi, anche se sinceramente non ne sai nulla, mentre invece ci sono tante femmine brave che scelgono pallacanestro o nuoto - ma qui hai già intrapreso una china pericolosa.
Un po’ delusa, Marinette guarda comunque il primo quarto d’ora della partita, noioso per un adulto e figuriamoci per una bambina. Rapidamente capisce che non è molto interessata al calcio, d’altra parte devo dire che non ho fatto molto per darle l’imprinting.
Lei va a dormire ma io ormai sono davanti alla televisione e inizio ad arrovellarmi, nella mia testa ricomincia l’estenuante convegno di gender studies che mi tormenta. Il gol non arriva e comincio ad addormentarmi: nella mia testa rimbombano gli schwa e iniziano ad apparire figure inquietanti, la sindaca, l’avvocata, e poi lei, la calciatora.
Possibile che il mio inconscio abbia questo rozzo umorismo da boomer? Signor Es, guardi che si dice calciatrice, non è mica una cosa tanto strana, se cerca la trova pure nel dizionario.
Poi cala il buio e mi ritrovo in un’aula di tribunale, osservato dai grandi vati della cultura conservatrice europea, da Edmund Burke a René Girard: «Eccolo qua, il genitore progressista». Mi dimeno e nego tutto: non è vero, non sono un genitore progressista! Le ho pure detto che maschi e femmine hanno corporature differenti!
«E allora perché non le hai semplicemente detto che il calcio è uno sport da maschi? Perché le leggi i fumetti delle super eroine? Le hai persino regalato il martello di Thor». Di fronte a queste accuse non so più che dire. Abbasso la testa, balbetto: forse essere genitori ci rende tutti un po’ progressisti.
Il gol dell’1-0 mi desta dall’incubo. Tante questioni sembrano astratte, pretestuose o moralistiche - parole come diversità o parità - finché non ti toccano da vicino. Quando devi spiegare a tua figlia perché un suo compagno ha due papà, e un altro un colore della pelle diverso. Quando guardi una partita di calcio e non c’è nessuna donna. Il mondo sta cambiando, cambia sempre, e talvolta le domande ingenue dei bambini dovremmo porcele anche noi adulti. Perché?
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