Tra le carte dell’archivio di Stato di Roma ci sono gli atti di alcuni processi per stupro. È incredibile come le parole delle donne siano state sempre sepolte dall’indecenza di chi, per secoli, le ha costrette al silenzio. È una storia di porte chiuse, mani che violano il corpo e l’anima. Ed è successo a tutte, almeno una volta nella vita
Mi si fecero addosso come lupi, buttandomi a terra supina, mentre due mi tenevano forte le spalle, e alle braccia, uno di essi mi alzò le vesti e volle per forza avere carnale commercio, e lo stesso fecero poi gli altri tre, uno dopo l’altro».
Così racconta Maddalena Corvi, una ragazza romana di 21 anni, vittima di uno stupro di gruppo alla metà dell’Ottocento. I suoi aggressori sono ragazzi giovanissimi come lei, e vengono subito arrestati dai gendarmi pontifici (Roma è ancora la città del papa re). Ma quando Maddalena si presenta davanti alle autorità per ottenere giustizia, i giudici non le credono: il dolore al basso ventre è andato via con degli impacchi di malva. E poi la ragazza vive alla meglio, è una figlia di nessuno, e qualche volta per campare si è persino prostituita.
Al coro delle vittime senza voce si aggiunge Domenica Palombini: abbandonata dal fidanzato ha fatto l’errore di cedere alle lusinghe di un altro corteggiatore che prima le ha promesso di sposarla e poi l’ha violentata. Il tribunale ha così deciso: la colpa di quanto accaduto è della fanciulla che si è fatta vedere in compagnia del suo aggressore, frequentando osterie, e che «visitata dal chirurgo per accertare l’avvenuta deflorazione, non ha neppure provato rossore».
Ho ritrovato queste storie, tempo fa, sfogliando tra le carte dell’archivio di stato di Roma ed è incredibile come la parola delle donne sia da sempre un coro muto, sepolto dall’indecenza di chi, per secoli, le ha costrette al silenzio.
È la storia a ricordarci che la cultura maschile del dominio e del potere sulle donne, non ha tempo. Anche perché la violenza sessuale può essere anche morale, non solo fisica. Lo ha ricordato in un recente saggio la storica Vanessa Roghi che con La parola femminista ha intrecciato una storia personale e politica (come recita il sottotitolo) fatta di generazioni diverse e di parole diverse: di intellettuali, scrittrici, di donne e bambine comuni.
«Pensavo di piacerti» si sente dire dallo zio di un suo amichetto, conosciuto a 13 anni, un’estate in vacanza in Sardegna. L’uomo che la molesta nella piscina di uno spogliatoio, ha trent’anni e non le chiederà mai scusa. Anzi, le farà sentire un peso sulla coscienza, fino al punto di nascondersi, di non raccontare, come se la colpa di quell’abuso fosse la sua.
«Esagero? Sono stata io a fargli credere di portarmi lì? C’è chi oggi mi direbbe che non devo mettermi nella posizione della vittima» scrive Vanessa, «ma ho tredici anni, esco da quello spogliatoio e mi sento uno schifo».
Domande pruriginose, umiliazioni, ricordi sepolti nell’oblio del tempo, perché violenze da nascondere, più che crimini da punire.
Almeno una volta a tutte
È incredibile quanti commenti di donne abbiano inondato la pagina FB di Roghi per svelare un taciuto, un rimosso, un non detto: di uomini adulti che allungano le mani fra le cosce di ragazzine ignare (perché a 10 o 12 anni, non sai nemmeno chi sei), che le sbattono sul letto appena la moglie esce di casa col loro peso, e quell’odore di dopobarba che si vuole lavare via, chiuse in bagno, tremando e pensando di essere sbagliate.
È una storia di porte chiuse, di mani indegne che violano il corpo e l’anima dell’adolescenza e dell’infanzia. Ed è successo a tutte, almeno una volta nella vita. Come quando l’operaio venuto in casa per riparare un guasto, approfittando dell’assenza di tua madre «si fa sentire appoggiandosi da dietro» e poi sorride per chiederti «ti sei offesa?».
O quando tuo zio ti implora di aprire la porta, sussurrandoti che non ti farà niente, mentre tu tremi chiusa in camera tua e speri che i tuoi genitori tornino a momenti. Non lo racconterai e te ne darai la colpa. Perché il mondo degli uomini è a questo che ti ha condannata. «Se io non voglio, tu non puoi».
I ricatti emotivi
La campagna antiviolenza lanciata quest’anno dalla Fondazione “Una, nessuna e centomila” ha coinvolto diversi volti del mondo dello spettacolo per dire che le responsabilità non possono essere rovesciate al grido di «te la sei cercata», «perché non hai urlato?» o «come eri vestita». Tutto giusto, peccato che non sia così semplice. Perché spesso sono le donne a cedere ai ricatti emotivi di uomini fragili ma assolutamente capaci di manipolarle facendo leva sul loro silenzio o l’obbligo di cura.
E chissà quante volte la povera Giulia Tramontano avrà provato a comprendere l’uomo col quale viveva e che voleva lasciare dopo aver scoperto i suoi ripetuti tradimenti, che l’ha ammazzata col figlio in grembo. Una rosa rossa e un paio di scarpine azzurre da neonato, accanto alla fotografia di una ragazza di 29 anni al mare col pancione. Così, in una fredda aula di tribunale, è andato in scena l’ultimo, tragico, atto di un processo chiamato a rendere giustizia alla sua vita spezzata. Quella di una madre massacrata da un assassino vigliacco e crudele che ha ucciso il suo stesso sangue.
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