Una bizzarra convinzione che va diffondendosi è quella secondo cui si potrebbe indovinare una felice alchimia transpartitica per prendere misure efficaci rispetto alla violenza sulle donne. Si dice, e con molto senno: un fenomeno tanto odioso, che al netto dei glorificati progressi culturali sembra inestirpabile, non può essere contrastato con la sola arma giudiziaria. Serve una spinta educativa, capace di instillare nelle giovani generazioni il germe del rispetto e l’amore per la libertà personale, scevri dalle implicature di un patriarcato ancora troppo attivo e vitale. Eppure, credo che una tale alchimia abbia il carattere mitico della pietra filosofale: è destinata a non farsi trovare.
Terreno di scontro
L’educazione affettiva è infatti il terreno di scontro tra visioni che ritengo pienamente legittime ma che non possiamo sperare s’incontrino proprio là dove il loro stridore è più acuto. Beninteso: al contrario di quanto talora si argomenta a sinistra, il complesso di principi e valori della destra non è oggi intrinsecamente maschilista, come invece fu in passato, e potrebbe certo fare spazio a una immagine della donna in cui questa non sia semplice perno delle dinamiche riproduttive, quindi da confinare nelle mura domestiche. Nondimeno, credo esista a destra una maglia soffocante che, più di altre, costringe sia l’affettività maschile sia quella femminile: l’idea che la tradizione, incarnata dalla famiglia sedicente “naturale”, sia un valore irrinunciabile – la famiglia nucleare e progenerativa, luogo insostituibile di formazione della prole, atomo della società umana. Ecco: io credo che questa idea consolidatissima della famiglia, se ritenuta unica, dunque priva di alternative, renda impossibile un’educazione affettiva davvero capace di iniziare una mentalità nuova sugli affetti. Lo credo perché quell’idea è l’alveo di una concezione proprietaria e destinale dell’amore, in cui l’una appartiene all’altro fino alla separazione per morte, e la vita di ciascuna delle due figure è interamente votata alla riproduzione di un modello sociale creduto privo di alternative.
Non importa che moltə rappresentanti della destra (istituzionale e non) disattendano nei fatti i valori sottesi a questa idea: per costoro la famiglia nucleare rimane un punto non negoziabile di avvio per un eventuale programma condiviso di educazione affettiva. E in effetti, quel che preoccupa a destra è che le/i giovani, con il pretesto della lotta alla violenza di genere, vengano espostə a discorsi che mettono in questione la struttura diadica ed eterosessuale della famiglia, come ad esempio il rispetto per le persone transgender e per le unioni gay e lesbiche, assieme alla necessità, più impellente di altre a mio avviso, di ripensare da capo a piedi il diritto di famiglia. Qui emerge in tutta la sua stringenza l’incompatibilità tra idee opposte di educazione affettiva: l’una tesa a proteggere la famiglia tradizionale, l’altra che intende quest’ultima come un modello tra altri, legittimo quanto altri.
In tal senso, molto istruttiva a me pare la lettura di un recente libro, Il gender. Dieci interventi sul sessuale e sul politico, del filosofo e teorico queer Lorenzo Bernini, frequente oggetto di vocianti proteste da parte di figure istituzionali e non della destra veronese (definito dal circolo cattolico Christus Rex “frocista militante”, di recente Stefano Valdegamberi lo additava su Facebook come propagatore “dell’ideologia gender e omosessualista”). Dall’angolo prospettico di Verona, definita nel libro «laboratorio politico delle destre», Bernini saggia in prima persona come la destra, benché ondivaga e divisa nei valori perseguiti in politica e in economia, si ritrovi invece unita nella concezione del genere, della sessualità e della famiglia. L’autore nota come il problema di fondo sia che oggi vanno emergendo “nuove soggettività nelle comunità lgbtqia+, che hanno poi preso parola e acquisito crescente visibilità nella società tutta”.
E proprio qui, per molte persone di destra, sta il nodo problematico, perché nutrono la pertinace convinzione che queste nuove soggettività emergano nella misura in cui si offre spazio a visioni distorte e deformanti della sessualità umana. Detto altrimenti, affiorano soggettività queer perché c’è il discorso sul queer. Ragazze e ragazzi si confondono perché incespicano nelle schwa, che storpiano lo stile e inducono dubbi crescenti su chi sono e cosa amano, oltreché su radici e desinenze. Insomma, secondo moltə a destra, il discorso intorno al queer favorirebbe la diffusione di identità sessuali incerte, losche, ambivalenti (in ciò per ironia contraddicendo la convinzione, parimenti nutrita a destra, che la sessualità sia questione di dotazione biologica e non un effetto di discorsi) e così facendo propiziano il disfacimento della famiglia tradizionale.
Legge senza effetti
Per questa opposizione non riconciliabile, l’affettività è e rimarrà motivo di scontro politico, specie quando si vuole sostenere, come fa Bernini, che sesso e genere, insieme a tratti ancora ritenuti essenziali come il colore e l’etnia, sono l’esito di discorsi e di storie – discorsi e storie che vanno sbastite sino in fondo e nel loro fare groviglio. A destra, l’idea di avanzare una tale ipotesi davanti a consessi di giovani equivale a un indottrinamento che prepara all’immoralità più perversa, lesiva del valore fondativo della famiglia. Ma ahimè credo che dove si difende la famiglia tradizionale come unico modo che la società ha di perpetuare la propria esistenza, e si sancisce questo convincimento con la forza della legge, l’educazione affettiva, ammesso trovi mai realizzazione, non sortirà grandi effetti.
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