- La crescita si sta fermando, per effetto della Russia e non solo. Ancora non siamo tecnicamente in recessione, perché ci vogliono due trimestri consecutivi per classificare così la crescita negativa, ma certo ora si vede il segno meno anche in Italia.
- Secondo la stima preliminare dell’Istat, il Pil si è contratto nel primo trimestre del 2022 dello 0,2 per cento rispetto a quello precedente.
- Con una guerra lunga mesi o anni, le previsioni dei mercati verranno presto riviste al ribasso. E l’impatto sull’attività economica seguirà. La frenata registrata nel primo trimestre potrebbe diventare una drastica inversione di marcia.
La crescita si sta fermando, per effetto della Russia e non solo. Ancora non siamo tecnicamente in recessione, perché ci vogliono due trimestri consecutivi per classificare così la crescita negativa, ma certo ora si vede il segno meno anche in Italia: secondo la stima preliminare dell’Istat, il Pil si è contratto nel primo trimestre del 2022 dello 0,2 per cento rispetto a quello precedente. Il confronto con lo stesso periodo del 2021 è comunque incoraggiante e registra un aumento del 5,8 per cento, ma la combinazione dei due dati sembra indicare che la ripresa post-Covid spinta dalle banche centrali e dalla politica fiscale potrebbe essere finita.
Ci sono molte avvertenze, prima di arrivare a questa conclusione: la stima dell’Istat è preliminare, può essere rivista e non conosciamo la scomposizione per voci, quindi è difficile trarre conclusioni. Ma non è certo un dato che sorprende: l’aumento dei costi dell’energia riduce la capacità di spesa delle famiglie, l’incertezza sul futuro rallenta gli investimenti, le tensioni sui mercati e la riduzione degli stimoli delle banche centrali spinge i governi alla prudenza nell’uso della spesa pubblica. Lo spread, la differenza di rendimento tra titoli di debito sovrani italiani e tedeschi è passata dai 100 punti dell’insediamento di Mario Draghi a febbraio 2021 ai 184 attuali.
La frenata è un problema abbastanza diffuso nelle economie occidentali che risentono dell’alto costo delle materie prime. Soltanto la Germania, nel primo trimestre, ha fatto meglio delle attese con una comunque magra crescita dello 0,2 per cento.
Gli Stati Uniti hanno segnato una crescita negativa dello 0,4 per cento, che molti hanno attribuito a un aumento delle importazioni. Ma un aumento delle importazioni di per sé non riduce il Pil, visto che nell’equazione del Pil l’import compare con segno meno semplicemente per non contarlo due volte quando si calcolano i consumi.
L’unica ragione per cui un aumento delle importazioni può ridurre il Pil è se ad aumentare è il valore dei beni intermedi importati che quindi costringe le imprese domestiche ad aggiungere meno valore, perché non possono trasferire per intero il rincaro sui consumatori finali.
Anche gli Stati Uniti, insomma, risentono dell’aumento dei costi dell’energia e delle conseguenze destabilizzanti di un’inflazione da record, visto che anche al netto dell’energia e del cibo (le componenti più volatili) marcia al ritmo del 5 per cento. A breve la Federal Reserve, la banca centrale americana, alzerà il costo del denaro di circa mezzo punto, primo di una serie di rialzi, e la frenata ulteriore dell’economia sarà inevitabile.
Guerra continua
La speranza è che a una riduzione della domanda corrisponda anche un rapido contenimento dell’inflazione, altrimenti gli Stati Uniti potrebbero confrontarsi con la spirale della stagflazione, prezzi in aumento e attività economica in contrazione.
Gran parte di questi problemi, inclusi i rincari nelle materie prime, pre-esistono alla guerra: sono trend iniziati da molto tempo, forse addirittura dalla reazione alla crisi economica del 2008 (anche i prezzi delle case, negli Stati Uniti, sono tornati ai massimi). Ma in più ora c’è la guerra.
I contratti futures sul mercato del gas olandese, considerato il riferimento per l’Europa, indicano che gli investitori non si aspettano un peggioramento della situazione del tipo di un brusco stop delle forniture russe al mercato europeo. Eppure questi sono giorni di escalation, a parole sul fronte economico, con le richieste del presidente russo Vladimir Putin di pagare il gas in rubli e i paesi Ue che si rifiutano e valutano altre sanzioni. Ma l’esclation sta diventando molto concreta anche sul piano militare, il presidente americano Joe Biden ha chiesto al Congresso di stanziare 33 miliardi di dollari per finanziare l’impegno bellico almeno fino a settembre.
Con una guerra lunga mesi o anni, le previsioni dei mercati verranno presto riviste al ribasso. E l’impatto sull’attività economica seguirà. La frenata registrata nel primo trimestre potrebbe diventare una drastica inversione di marcia.
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