Quella che Ian Bremmer alcuni anni fa sul Time definiva «l’era degli uomini forti», osservando il trionfo elettorale di leader populisti, autoritari e machisti, vista da questo angolo di mondo, dall’Unione europea che tra pochi giorni è chiamata al voto, sembra piuttosto un’era di «donne forti». Sono tre quelle che, secondo l’Economist, sono destinate a «dare forma all’Europa»: Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni e Marine Le Pen.
L’ultima copertina del settimanale britannico le ritrae insieme, con Meloni al centro, e le altre due rivolte da direzioni opposte verso di lei. Perché – sostiene l’editoriale – sarebbe la leader del gruppo dei Conservatori a poter puntellare il potere dell’attuale presidente della Commissione, in corsa per un secondo mandato; e sempre lei a poter fare da argine alla destra populista ed euroscettica in ascesa, se la si accogliesse nella politica europea “mainstream” spezzandone la possibile saldatura con l’estremismo di Le Pen.
Quella dell’autorevole rivista liberale ha tutti i tratti di un’apertura di credito, più che di un’analisi. Perché anche chi non vive in Italia può avere avuto l’occasione di osservare la presidente del Consiglio in campagna elettorale, e accorgersi che molto poco la distingue da Le Pen e altri rappresentanti della destra radicale populista. Quasi solo le posizioni in politica estera.
Ci sono comunque, in questo trittico femminile, alcuni messaggi rilevanti. Il primo dei quali è l’indiscusso protagonismo delle donne in questa fase politica, in cui si va configurando con sempre maggiore nettezza un bivio tra idee opposte di Europa: da una parte il progetto federalista che ambisce a una crescente integrazione, anche sul versante dei diritti; dall’altra il disegno nazionalista che difende la sovranità degli Stati, specialmente su materie identitarie quali cultura, migrazioni, famiglia.
In un simile scenario, donne leader diverse, lungi dal poter essere accomunate sulla base del loro genere, o trattate come interpreti di una politica “al femminile”, avanzano visioni diverse dell’ordine sociale da difendere o costruire. E del posto che le stesse donne dovrebbero occupare.
Perché leadership femminile non significa leadership femminista, ed esaltare l’identità di donne non significa essere intenzionate a fare politiche “per” le donne. Non, almeno, per tutte le donne.
Meloni e Le Pen sono oggi le migliori rappresentanti, in Europa, di una destra dal volto femminile che, mentre si appropria selettivamente di linguaggi e temi femministi, e spesso li impiega a fini polemici (si pensi al ruolo della vittima di sessismo interpretato da “Giorgia” nello scontro verbale con Vincenzo De Luca), resta ancorata a idee reazionarie: contro l’aborto, per la famiglia “naturale”, anti immigrazione e anti islam. Con l’effetto di dividere le donne: le donne native e straniere, cristiane e musulmane, eterosessuali e lesbiche, madri e non madri.
Forse questo non interessa all’Economist, quando auspica l’inclusione dei Conservatori meloniani nel mainstream. Eppure la copertina invia un altro messaggio chiaro: che la partita è tra donne, ma tra donne di destra. È una partita tra destre, più o meno liberali, più o meno radicali. Se la prospettiva che si apre, con questa competizione al femminile, è quella di un nuovo equilibro destinato ad avvantaggiare le forze più ostili all’agenda femminista, quello in cui ci troviamo è l’apparente paradosso di un potere con volto di donna, da cui le altre donne hanno solo da perdere.
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