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Chi giudica una larga maggioranza di destra un rischio grave ha due strade per scongiurarlo: costruire una larghissima alleanza elettorale, o impugnare idee innovative e credibili.
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La prima strategia è ostacolata dalla legge elettorale, e in caso di successo promette governi instabili e senza rotta. La seconda è ardua, perché costruire idee innovative e credibili richiede tempo.
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Il dilemma va proiettato sugli anni a venire, perché la strada intrapresa inciderà sia sulla legislatura sia sulle elezioni successive. Sotto questo profilo puntare sulle idee appare nettamente preferibile.
Una solida maggioranza parlamentare di destra. Inutile diffondersi sui rischi che ciò comporta per i valori che ereditiamo all’Illuminismo, se potranno cambiare la costituzione liberamente, per l’economia, terreno di predazione, per i vulnerabili, manipolati e lasciati a se stessi.
Per scongiurarli esistono due strade. Una è coalizzare la più lunga lista di sigle e nomi possibile, ignorando ogni differenza politica, per raccogliere tutti i voti che ciascuno può raccogliere. La formulazione più onesta di questa strategia è nell’articolo pubblicato su Domani da Emanuele Felice. Altre, come quella Bonino-Calenda, che escludono alcuni in partenza, sono prive di senso.
La seconda strategia è quella implicita nell’iniziativa di Domani, che raccoglie proposte sul futuro dell’Italia. È la via delle idee innovative e credibili. Naturalmente tutti dicono di avere buone idee, proprie o altrui, ma è di altro che parlo.
Il Pd promette «giustizia sociale», per esempio. Ma il 20 giugno i suoi deputati si dissero «soddisfatti», pur con riserve, di una delega fiscale che non eleva la blanda progressività del sistema, mantiene privilegi indifendibili, e lascia pressoché tutti gli altri problemi irrisolti. Su questo terreno, battersi su idee innovative e credibili significa architettare un diverso sistema fiscale, impugnarlo nella dialettica coi conservatori interni, e con esso sfidare gli altri partiti: milioni di voti sono a disposizione di chi offra un fisco tangibilmente più equo ed efficiente.
«Giustizia sociale», «lavoro», «ambiente» sono parole, non idee: spesso poco credibili, alla luce di scelte passate più volentieri dimenticate che pubblicamente rivisitate. Forse esagero, e non voglio criticare il povero Pd: l’esempio serve a chiarire, per contrasto, cosa sia questa seconda strategia.
Quale delle due è preferibile? La seconda può sembrare impossibile: se anche i boccioli di qualche idea felice esistessero, due mesi non bastano per convincere una larga maggioranza relativa dei votanti. Ammettiamolo, e vediamo la via della coalizione onnicomprensiva.
Se vittoriosa, sappiamo che essa produce governi instabili e senza rotta, vulnerabilissimi al trasformismo; e alle elezioni successive, verosimilmente vicine, saremmo da capo. Ma sarà vittoriosa? Conviveranno Conte e Gelmini, per esempio? Che apporto netto di voti daranno? Questa strategia non pare meno difficile e rischiosa dell’altra, in termini di seggi. E allora allarghiamo lo sguardo.
Dal voto del 2018 liberali e progressisti non hanno prodotto idee, salvo qualche eccezione, ma giochi di scomposizione e composizione di maggioranze. La tattica degli schieramenti è cosa utile, e ci salvò da un duraturo governo giallo-verde: ma è la pressoché esclusiva attenzione a essa che ci ha portati al punto in cui siamo.
La vera differenza tra le due strategie, che sfugge a chi si concentri sul breve termine, è che in caso di sconfitta la prima lascia solo rovine, e reti clientelari in cerca di casa; mentre la seconda pone le premesse per la rinascita: perché una battaglia di idee non è mai senza frutto, se le idee sono buone. Sarebbe dunque folle scegliere la prima, in assenza di realistiche speranze di successo: speranze che ora non vedo.
Né il Pd né tantomeno la destra paiono inclini a battersi sulle idee, scrivevo ieri in un articolo, piuttosto pessimistico, sul Financial Times. Ma se la destra non vuole farlo, e in parte non può, il Pd deve. Si lanci: la fortuna aiuta chi osa, dice Virgilio, non i tattici.
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