Si moltiplicano gli appelli per un accordo elettorale che sia utile ad impedire il successo dello schieramento di centro destra soprattutto nella conquista di collegi elettorali che, in caso di frantumazione dei contendenti, potrebbero essere vinti anche con percentuali di voto molto basse (in alcuni casi può bastare un terzo dei voti). Credo sia opportuna una distinzione di fondo.
Una cosa è un accordo politico tra partiti, più o meno omogenei, intorno ad un comune progetto e una cosa è il “patto repubblicano”. Nel primo caso le difficoltà si presentano grandissime, tanto per la delimitazione del perimetro dell’accordo quanto per la scelta dei contenuti. Sgombriamo il campo dalla cosiddetta agenda Draghi, che, semplicemente, non esiste. Il governo Draghi è nato intorno a due obiettivi di assoluta emergenza nazionale (la pandemia e il Pnrr) e le soluzioni che ha dovuto adottare sono state sempre di compromesso tra le forze che lo appoggiavano.
Provvedimenti di stampo liberista (la nuova privatizzazione dei servizi pubblici locali, nonostante e contro il referendum del 2011), qualche timido tentativo di colpire le rendite (catasto, balneari, tassisti), soluzioni tutte emergenziali e di deroga alle leggi vigenti per attuare il Pnrr (sul quale grava l’incognita della capacità realizzative delle nostre amministrazioni, oggi allo stremo). Insomma un governo nel quale si è stati per senso di responsabilità nazionale, ma che non può essere “il” governo dei partiti della sinistra. Un governo che non doveva essere sfiduciato, ma portato alla sua naturale conclusione, le elezioni del 2023.
L’alleanza “politica” e programmatica di cui si parla è molto difficile da realizzarsi: imbarcare i vari Renzi, Calenda, Di Maio, Brunetta, Gelmini una tale alleanza significa, di nuovo, perdere di chiarezza e non entrare in rapporto con il popolo dei poveri, dei senza diritti, delle classi lavoratrici impoverite e sfruttate in modo indecoroso.
Un’alleanza diversa
Il “patto repubblicano”, invece, non è un’alleanza politica, ma, appunto, un patto elettorale che viene concluso tra soggetti politici esplicitamente molto diversi tra loro (basti pensare alla distanza tra un’agenda di riduzione delle disuguaglianze e di transizione ecologica e un’agenda liberista e nuclearista alla Calenda).
Un patto che viene concluso per sbarrare la strada ad una destra fortemente condizionata da parole d’ordine sovraniste, populiste e francamente inaccettabili (basterebbe far vedere agli italiani il discorso di Giorgia Meloni al comizio di Vox in Spagna o svelare la pochezza di parole d’ordine semplificate, quali il “ponte di Messina”, la “flat tax”, la sicurezza anti immigranti, la “burocrazia zero" e così via), che nascondono la piena subordinazione della destra italiana ai grandi interessi privati.
La destra che aspira a governare è molto più vicina a Orban, Bolsonaro, Trump, di quanto non sia alla stessa Marine Le Pen, nei cui confronti il patto repubblicano, è sempre stato adottato in Francia con piena legittimità e con successo. Nel patto repubblicano si riconosce, espressamente, agli eletti nei collegi uninominali la piena libertà di iscriversi al gruppo parlamentare che preferiscono; il patto consentirebbe l’elezione di esponenti di tutti i partiti, ciascuno dei quali proporrà la propria ricetta per i problemi e del Paese e sarà libero di cercare in Parlamento le maggioranze che vuole.
In una simile logica possono stare nel patto tutti, dalla sinistra fino ai centristi, passando anche per il movimento 5 stelle. Il fatto che Conte si sia assunto la grave responsabilità di far cadere il governo Draghi potrà essere segnalato in campagna elettorale per distinguersi da loro, ma non cambia il dato di fondo, oggi: impedire un governo fortemente sbilanciato verso la destra estrema.
In fondo, il patto repubblicano serve a neutralizzare proprio gli effetti nefasti del Rosatellum, di quella legge elettorale che non si è stati capaci di cambiare. Esso crea un effetto di rappresentanza proporzionale degli schieramenti, che si presentano così agli elettori più liberi di esprimere con nettezza le proprie opzioni politiche.
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