Quest’anno per il vero Halloween dovremo aspettare la notte del 5 novembre. Lì altro che spettri, fantasmi e paura. Ma neanche il futuro presidente, o la futura presidente, ha da stare molto tranquillo. Fantasmi ce ne sono anche per lui, o per lei. Comunque vada, e chiunque vada, sarà un disastro. O almeno qualcosa che gli può somigliare molto.

Tra le altre cose, ancora prima del giuramento del nuovo presidente – il 20 gennaio – per l’America suonerà un sinistro gong, perché il 2 di quel mese, appena smaltita la sbornia di San Silvestro, sarà sfondato il tetto al limite del debito pubblico che era stato fissato dal Fiscal Responsibility Act del 2023.

Biden si è trovato a dover far fronte due volte all’infelice circostanza, che mette il Tesoro degli Stati Uniti nella condizione di dover adottare delle misure straordinarie che possono però solo temporaneamente tamponare la crisi, prima di essere costretti a dichiarare default per impossibilità di poter far fronte alle proprie posizioni debitorie.

La prima volta, il Tesoro aveva adottato le sue misure straordinarie nell’agosto 2021, e la cosa era andata avanti con sempre maggior sofferenza fino al 14 ottobre, quando il Congresso era riuscito a trovare un accordo bipartisan per innalzare, con legge, il limite all’indebitamento pubblico, e dare così fiato al governo.

Il nuovo limite era stato però ancora raggiunto il 19 gennaio dell’anno scorso. Le misure straordinarie erano andate avanti per tutta la primavera, fino a quando il Tesoro non aveva annunciato che non si sarebbe andati oltre l’inizio di giugno: dopo, default. L’allarme aveva stretto a coorte le forze politiche, e il 3 giugno 2023 il Congresso approvava il Fiscal Responsibility Act, con cui era di nuovo innalzato il tetto.

Ora siamo di nuovo alla soglia del baratro, e il nuovo Congresso – insieme al nuovo presidente – dovrà trovare un nuovo accordo per un nuovo innalzamento del limite. Chi segue un minimo la vicenda politico-istituzionale degli Stati Uniti sa che questi accordi non sono mai facili, soprattutto al Senato, dove la maggioranza politica di turno deve fare i conti con l’ostruzionismo della controparte.

L’opposizione, infatti, non avrà forse i numeri per imporsi, ma ha tutti gli strumenti per snervare il dibattito parlamentare, prolungandolo oltre ogni ragionevole soglia, e non è una cosa da poco se intanto scorre il countdown verso il default. La maggioranza potrebbe imporsi e arrivare subito al voto solo se ha dalla sua 60 senatori su 100, il che significa in concreto tirare dalla sua parte una porzione dell’opposizione.

Nel 2021 e nel 2023, l’operazione è riuscita, pur con tutto lo stress del caso. Ma l’esito delle elezioni presidenziali, e soprattutto come ne verranno gestiti gli strascichi, rischia di inasprire la polarizzazione delle due parti politiche, e rendere complicato un dialogo, tanto più a così breve distanza temporale dallo scontro elettorale, a pistole ancora fumanti.

D’altra parte, nell’avvicendamento alla Casa Bianca, ci sarà anche un’altra scadenza con cui fare i conti. Il 20 dicembre termina l’esercizio provvisorio di bilancio, e sarà necessario a quel punto che il Congresso trovi l’accordo per autorizzare la spesa pubblica federale per il nuovo esercizio finanziario. È probabile che il termine del 20 dicembre sia prorogato di un altro po’, quanto basta per far insediare il nuovo Congresso, ma il busillis è così solo rinviato.

Poi, un accordo bisognerà trovarlo, altrimenti – terminato l’esercizio provvisorio senza autorizzazione legislativa alla spesa – il nuovo presidente dovrà dichiarare lo shutdown, ossia la sospensione dei servizi federali non essenziali. Non c’è niente da fare: se il Congresso non autorizza la spesa pubblica, il governo non ha i soldi per pagare neanche i custodi della Statua della Libertà.

Non si tratta di una circostanza inedita nella storia recente degli Stati Uniti, sebbene resti sempre una cosa grave, anche per la perdita in termini di Pil che ne consegue. Ma nei quattro anni della presidenza Biden ce l’eravamo scampata.

L’ultimo shutdown c’era stato con Trump a cavallo tra il 2018 e il 2019, e, con i suoi 35 giorni, era stato lo shutdown più lungo della storia americana: 380mila dipendenti federali in congedo forzato, e 420mila con stipendio ritardato fino alla fine dello shutdown. Chissà se la prossima volta sarà tragedia o sarà farsa.

© Riproduzione riservata