- Una donna, giovane, un soggetto del tutto “imprevisto” in un campo dominato da uomini di mezz’età, assume la guida di un partito sofferente, convalescente.
- La sua elezione a «segretaria» appare già una «piccola grande rivoluzione» per quella declinazione al femminile che a sinistra ha faticato così a lungo a tradursi in realtà.
- Ma ci sono altri aspetti di novità in questa impresa coronata da un successo inaspettato, che rappresentano altrettante sfide. Come la costruzione del “noi”.
«Anche stavolta non ci hanno visto arrivare»: Elly Schlein lo dice ai cronisti, e lo ripete ai suoi, nella sera in cui le primarie del Partito democratico le consegnano una vittoria che sembrava impossibile.
Una donna, giovane, un soggetto del tutto “imprevisto” in un campo dominato da uomini di mezz’età, assume la guida di una forza politica uscita con le ossa rotte dalle elezioni del 25 settembre e, di nuovo, dalle regionali di poche settimane fa. Un partito sofferente, convalescente, che è arrivato anche all’appuntamento delle primarie senza energia, come certifica l’affluenza calante ai gazebo.
La sua elezione a «segretaria» appare già una «piccola grande rivoluzione» per quella declinazione al femminile che a sinistra ha faticato così a lungo a tradursi in realtà. Ma ci sono altri aspetti di novità in questa impresa coronata da un successo inaspettato, che rappresentano altrettante sfide.
Il primo è la proposta di un modello di leadership alternativo a quello di Giorgia Meloni. «Femminista», non «femminile», l’ha chiamato Schlein. La differenza è quella che passa tra l’agire “per le donne”, per i loro diritti, e il semplice “essere donna”. Tra il collettivo e l’individuale.
Su questo terreno, del “noi”, la neo segretaria si appresta a giocare una partita decisiva. Perché da qui passa la possibilità di rigettare e sconfiggere l’individualismo competitivo e reazionario, che con la destra vittoriosa si è fatto spirito del tempo.
Il secondo aspetto è il rapporto tra il dentro e il fuori, tra un partito da troppo tempo incapace di un rapporto con la società e pezzi di società fuori dal partito che hanno visto nella candidatura di Schlein la possibilità di tornare a contare.
Gruppi femministi, ambientalisti e antirazzisti, reti del sociale e organizzazioni giovanili hanno avuto un ruolo importante nel produrre l’effetto di «movimento» che, come ha sottolineato Stefano Feltri, solo una leadership «aperta» poteva creare.
Il risultato apre a una possibile mutazione nella natura stessa del partito, che però per realizzarsi richiede cura, costanza, capacità di permanere nel rapporto con il fuori e di costruire effettive piattaforme di mobilitazione. Non basterà, per questo, il solo cambio alla guida.
Il terzo aspetto è la proposta politica. Elly Schlein ha sfruttato fino in fondo il bisogno di riconoscimento, mobilitazione, integrazione delle identità, che soprattutto le donne, i giovani, le minoranze si aspettano di trovare al cuore di un programma di sinistra.
A garanzia del suo programma ha posto se stessa, la sua persona, il rapporto di fiducia che nasce dalla vicinanza.
Però il successo di Schlein non è stata un’avventura solitaria, e chi l’ha sostenuta della vecchia guardia del partito non uscirà di scena. Si tratta ora per lei di mostrare di saper essere, come ha dichiarato, «solo di se stessa».
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