- Il dibattito sugli esiti del processo Ruby ter mostra l’incapacità italiana di discutere dei fatti emersi dall’attività berlusconiana indipendentemente dalla loro rilevanza penale
- I recenti articoli di Mattia Feltri e Luca Sofri confondono il discorso perché denunciano uno stato etico che non esiste (Feltri) o restringono il processo alla mera sentenza (Sofri)
- Invece si può e si deve discutere di quanto emerge dai processi per responsabilizzare il dibattito pubblico, anche quando le sentenze non sono di condanna
L’eredità tossica del trentennio berlusconiano inquina tutti gli anfratti del discorso pubblico che lo riguarda.
Non soltanto rende impossibile la costruzione di una voce a destra che non sia costretta a difenderlo, ma annebbia anche la posizione garantista.
Oltre a politicizzare ogni aggiornamento della storia giudiziaria berlusconiana, ostacola l’elaborazione pubblica di quanto dovrebbe ormai essere considerato per acquisito come verità storica, politica e giudiziaria.
Ultime due vittime illustri di questa allucinazione collettiva sono due giornalisti (Mattia Feltri e Luca Sofri) che solitamente cercano di non far contaminare le loro posizioni dalla piccola logica della guerriglia politichese.
Il primo chiama in causa l’ossessione di un presunto “stato etico” che si sarebbe ossessionato nel tentativo di condannare la vita privata del cittadino Berlusconi.
La falsa garanzia verso la privacy fa dimenticare a Mattia Feltri gli elementi chiaramente pubblici, non privati, della questione (uso privato di risorse e incarichi pubblici, corruzione di testimoni).
Il secondo se la prende con la vulgata giornalistica secondo cui sarebbe stato un mero cavillo ad aver scagionato un di fatto colpevole Berlusconi.
Nel tentativo di “spiegare bene” il senso dei processi, Sofri in realtà restituisce una visione asfittica e ragionieristica della giustizia.
È vero che cercare la verità fattuale non è un fine in sé del processo.
Ma la ricerca dell’accaduto non è un mero scopo strumentale dei processi, come vorrebbe Sofri.
Non perché i giudici vogliano controllare la vita delle persone con l’occhio di Dio, ma perché lo stabilire la verità non è un mero scopo accessorio.
Verità e giustizia
A differenza di altri contesti di ricerca della verità (indagine storica o giornalistica), nel processo la ricerca della verità è vincolata a principi di giustizia: non verità a tutti i costi, ma in un modo che tuteli tutte le parti in causa.
Ciò che è stato definito il cavillo del Ruby ter è appunto una garanzia: la differenza tra indagati e testimoni, così come sono garanzie altri principi procedurali di raccolta delle prove e di uso delle fonti.
Il processo è un meccanismo imperfetto, ma altamente sofisticato, in cui si perseguono diversi scopi: nel ricercare la verità fattuale di una serie di eventi si devono anche tutelare le parti.
La giustizia si persegue sia alla fine del processo (col verdetto sostanziale) sia durante il processo, cioè trattando le parti con equità e rispetto.
Il valore del garantismo sta nell’assicurare il diritto di ciascun imputato a veder riconosciuti i principi procedurali di essere trattati giustamente dentro il processo.
Ma tutto questo non implica scartare la conoscenza che viene fuori durante il processo.
Il dibattito pubblico può e deve alimentarsi con le acquisizioni processuali, anche quando non servono a condannare o assolvere qualcuno.
Contrariamente a quanto sostenuto da Sofri, non è l’ossessione per una verità sostanziale contro l’esito del processo ad essere un problema; e contro Feltri non è certo la pruderie moralistica ad animare inquirenti e una parte dell’opinione pubblica.
Verità e discorso pubblico
Gli elementi emersi dai processi, anche quando non sono validi o sufficienti per determinare una condanna, devono essere pezzi di un discorso pubblico più ampio.
Il garantismo male inteso cerca di isolare il sistema giuridico dalle altre sfere della vita collettiva, come se il suo funzionamento fosse alieno dal resto della vita sociale.
L’indipendenza della magistratura non implica che la società debba essere isolata dallo sviluppo dei processi. Non si può chiedere al sistema penale di fare ciò che non deve fare.
La pretesa che fosse la magistratura a gestire l’accettabilità politica di Berlusconi è stata una trappola che ha posto sotto pressione il sistema giuridico caricandolo di aspettative eccessive e ingiuste. Ma la soluzione non deve andare nella direzione opposta.
Ovvero non si dovrebbe nemmeno rendere la giustizia un sistema sterile, come se tutto ciò che emerge da un processo, sebbene non utilizzabile ai fini di una condanna, dovesse essere considerato irrilevante.
Cerchiobottismo
Il dibattito sull’assoluzione nel Ruby ter mostra, ancora una volta, i miasmi della presenza berlusconiana nella vita pubblica.
Luca Sofri e Mattia Feltri hanno evidentemente sentito il bisogno di posizionarsi diversamente dalle frange pro- e anti-Berlusconi in un garantismo che finisce per essere un cerchiobottismo di terzo livello.
Un esercizio di distinguo che porta a una sterilizzazione dei fatti emersi dal processo, come se fossero delle scorie tossiche che il dibattito pubblico deve espellere e non discutere.
Lasciare che siano i giudici con la condanna o l’assoluzione a valutare politicamente ha deresponsabilizzato il pubblico italiano.
Il dibattito pubblico italiano deve invece abituarsi a digerire i fatti a prescindere dalla loro rilevanza penale.
Solo parlandone, e non rimuovendoli dal discorso, l’opinione pubblica di sinistra e di destra potrà forse un giorno superare questa era di annebbiamento collettivo.
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