La marginalizzazione dell’Italia nelle nomine europee è il frutto degli errori politici di Giorgia Meloni. La nostra premier, a dispetto di chi la dipingeva come pragmatica e in via di moderazione, su questa partita cruciale per l’Italia ha giocato e sta giocando una partita tutta ideologica che ha finito per danneggiare profondamente l’interesse nazionale (proprio quello che dice di voler difendere!). L’Italia era e rimane il paese economicamente più fragile dell’Unione Europea. Innanzitutto per il suo elevato debito pubblico, il maggiore della Ue, che la espone più di altri alle turbolenze dei mercati.

Ma poi anche perché, nonostante il buon rimbalzo del Pil dopo il crollo della pandemia, noi continuiamo ad avere un andamento anemico della produttività, dovuto a determinanti fondamentali dello sviluppo (la ricerca e l’innovazione, l’istruzione, la tipologia delle imprese, il sistema fiscale e l’evasione, la pubblica amministrazione e la giustizia), a condizioni socio-economiche (la bassa quota di occupazione femminile, le disuguaglianze a danno del Mezzogiorno), e a fattori demografici (la popolazione giovane in diminuzione) che ci vedono tutti sulle posizioni più basse dell’Europa e dell’intero mondo occidentale e che, quindi, rendono le nostre prospettive di crescita a medio periodo (e quindi di sostenibilità del debito) particolarmente cupe.

Per questo, l’Italia ha un bisogno vitale di stare nel cuore dell’Unione, con una politica di piena integrazione che, da un lato, ci veda convergere verso i livelli medi europei in tutte queste dimensioni, dall’altro comporti un impegno solidale degli altri paesi verso di noi: qualcosa di analogo a quanto era stato realizzato, almeno idealmente, con il Pnrr. E tutto questo è peraltro, come è ovvio, anche nell’interesse dell’Europa, cosa che le classi dirigenti europee più avvedute sanno bene.

Certo, per definizione, se l’Italia è governata dalla destra nazionalista e illiberale, e da un partito in cui di tanto in tanto emergono addirittura nostalgie per il fascismo, è difficile immaginarla pienamente integrata in Europa. Tuttavia, si poteva almeno sperare che Meloni fosse consapevole del problema e che agisse di conseguenza. Difatti, la premier aveva comunque delle leve per evitare il disastro cui andiamo incontro.

La via era semplice, tutto sommato, ed era quella che ci si dovrebbe aspettare da una statista degna di questo nome: separare il suo ruolo politico, di leader delle destre nazionaliste e illiberali, da quello istituzionale, il premier del terzo paese dell’Unione e membro fondatore. In virtù di questo secondo ruolo, Meloni avrebbe avuto tutto il diritto (e ne aveva anche il dovere) di chiedere e ottenere un incarico di primo piano per l’Italia: e le possibilità non mancavano, se avesse puntato ad esempio sulle forze europeiste della sua maggioranza, o meglio ancora su figure tecniche di alto profilo (un nome per tutti: Mario Draghi).

Meloni invece ha fatto l’opposto: ha negoziato innanzitutto come leader delle nuove destre, chiedendo uno spostamento politico dell’intero asse dell’Unione che avrebbe di sicuro nociuto alla nostra casa comune: avrebbe comportato un’Europa meno funzionale, ancora più prigioniera dei veti nazionali, delle «piccole patrie», ancora meno in grado di affrontare le grandi sfide – geo-politiche, economiche, ambientali, democratiche – in cui siamo immersi.

Ma anche qui, attenzione: avrebbe nociuto all’Italia. Nell’Europa dei nazionalismi ci sarebbe ancora maggiore austerità ai nostri danni, ci sarebbe ancora meno disponibilità a investire sulla conversione ecologica da cui invece il nostro paese può trarre enormi benefici, o a condividere insieme a noi la gestione dei migranti (per non dire degli eurobond, di grandi progetti comuni: inimmaginabili). Insomma, il fallimento di Meloni in Europa non è solo il frutto dei suoi errori. È l’esito, inevitabile, della sua visione. Della sua natura. È bene che tutti se ne rendano conto, perché sta mandando a fondo l’Italia

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