- Fascismo e presidenzialismo sono le parole più abusate, spese in maniera superficiale e abusiva, in questa strana campagna elettorale di agosto.
- Sono stati invece spesi da politici, opinionisti e militanti della parte opposta per far sapere che detestano immensamente Giorgia Meloni e i suoi compagni di partito.
- Ma le istituzioni della democrazia liberale servono proprio a garantire che posizioni politiche detestate da alcuni possano essere legittimamente espresse da altri.
Fascismo e presidenzialismo sono le parole più abusate, spese in maniera superficiale e abusiva, in questa strana campagna elettorale di agosto.
Fascismo e derivati (ex, post, proto) sono concetti che i sostenitori della democrazia liberale dovrebbero maneggiare con cura. Rievocano non un qualunque tornante della storia, ma la tragedia assoluta del Novecento. Dovrebbero segnalare che le libertà garantite dalla costituzione sono a rischio.
Sono stati invece spesi da politici, opinionisti e militanti della parte opposta per far sapere che detestano immensamente Giorgia Meloni e i suoi compagni di partito. Ma le istituzioni della democrazia liberale servono proprio a garantire che posizioni politiche detestate da alcuni possano essere legittimamente espresse da altri.
Antifascismo e democrazia
In effetti, “antifascista” non è sempre stato nella politica italiana un equivalente di “sostenitore della democrazia liberale”. È stato vigorosamente antifascista il Pci nella fase della sua stretta dipendenza, economica e strategica, dal Pcus staliniano, e in quella assai più lunga durante la quale dirigenti e militanti hanno continuato ad avere come modello largamente condiviso di riferimento paesi retti da regimi autoritari (Russia, Cina, Jugoslavia), così come lo erano gli estremisti degli anni Settanta secondo cui “uccidere un fascista [inteso anche come un inerme militante missino] non è reato”.
Nell’ordinamento repubblicano l’apologia del fascismo è un reato codificato dalla legge Scelba del 1952. Un’altra seria ragione per non usare il termine a vanvera.
Nonostante la presenza di una magistratura democratica particolarmente attiva, le prove portate a carico di FdI e della sua leader (un tweet, il tono di un comizio, due frasi di lei diciannovenne, saluti romani e altre sgradevolezze da lei né promosse né autorizzate) non sarebbero prese sul serio.
È stato quindi sostenuto, da commentatori e giuristi creativi, che Meloni e FdI dovrebbero essere sottoposti ad una sorta di tribunale etico che accerti, non si sa bene composto come e su che basi, la loro piena adesione ai “valori dell’antifascismo”. Una pratica davvero molto distante dai canoni della democrazia liberale.
Nella Prima repubblica, a fascismo morto e non riesumabile, poteva essere plausibilmente definito fascista chi prese parte attiva, magari credendo d’essere patriottico, alla Repubblica sociale italiana (lo stato fantoccio che Hitler mise in mano a Mussolini ormai suo “prigioniero” mentre i nazisti occupavano il Nord e deportavano gli ebrei italiani verso le camere a gas) e mai lo rinnegò coltivando una memoria edulcorata del regime. Giorgio Almirante, ancora a metà degli anni Ottanta si autodefiniva fascista per quella ragione.
Oggi si vorrebbe applicare lo stesso concetto come un marchio indelebile a chiunque abbia militato per qualche anno nel Movimento sociale italiano e non abbia rinnegato la sua formazione giovanile o il legame con Almirante (di cui peraltro, alla morte, dissero benissimo in tanti).
Nonostante abbiano sottoscritto varie abiure individuali e collettive, svolto ruoli parlamentari e ministeriali di primo piano, attraversato due o tre partiti, la reazione istintiva di chi, da sinistra, li trova irritanti è che dopotutto “sono sempre quella roba lì, missini”, come equivalente di “sono sempre fascisti”. Per chi usa le parole con tanta superficialità, le prove a carico di Giorgia Meloni sono per definizione inconfutabili.
Fortunatamente, l’eventualità che i dirigenti di FdI possano compiere atti antidemocratici o illiberali, cioè contrari alla costituzione, o intaccare principi costituzionali inerenti alla natura democratico liberale del nostro ordinamento, come se vivessimo in Ungheria o Polonia, è abbastanza remota.
Ipotizzarlo, oltre che un processo kafkiano alle loro intenzioni è un atto di sfiducia sulla tenuta dei sistemi di controllo e bilanciamento del nostro sistema istituzionale, come ha sottolineato Sabino Cassese.
È anche un atto di sfiducia verso la forza dei vincoli esercitati dal nostro sistema socio-economico, dal pluralismo dei media, dal ruolo dell’opposizione, dalla integrazione nell’Unione Europea, dal cambiamento di atteggiamenti che comporta il passaggio da minoranza che rischia l’estinzione ad attore cardine del governo.
Di sicuro, chi oggi pensa di votare per un qualsiasi partito del centrodestra non si farà convincere di essere l’inconsapevole corresponsabile di una deriva fascista.
I veri limiti di Fratelli d’Italia
I limiti della proposta politica di FdI a cui avrebbe senso si applicassero i suoi antagonisti sono altri. Quando, tra il 2013 e il 2018, combattevano per sopravvivere, non hanno solo reinserito la fiamma nel loro simbolo con l’obiettivo di prendere almeno i voti degli ex missini e il controllo della Fondazione Alleanza Nazionale.
Hanno anche fatto proposte chiaramente populiste e antieuropee, come quella di cancellare, con revisione costituzionale, la diretta applicabilità in Italia dei regolamenti Ue (un exit non mascherato), appellandosi ad una dubbia similitudine con la costituzione tedesca e affidando di fatto ai giudici costituzionali italiani l’immane compito di stabilire in cosa consistano «i principi di sovranità e democrazia» che secondo la loro riscrittura dell’articolo 11 dovrebbero presiedere all’applicazione in Italia delle norme comunitarie.
Questo avveniva prima che, alle europee del 2019, FdI superasse la soglia non solo psicologica del 4 per cento e la guida delle relazioni estere fosse affidata a Raffaele Fitto, prima della pandemia e dell’invasione russa in Ucraina, prima dei disastri causati nel Regno Unito dalla Brexit.
Nei programmi attuali, di quelle tesi non c’è traccia, e va detto che in tutta Europa anche partiti con posizioni più estreme, arrivati al governo hanno attenuato se non ribaltato il loro originario antieuropeismo (vedi Lega e 5 Stelle).
A partire dall’unico vero congresso che hanno tenuto, nel 2017 a Trieste, fino alla convenzione programmatica di Milano del 2022, hanno cercato per prove ed errori di disegnare il profilo di una destra patriottica, nazionalista, conservatrice.
Nel farlo, hanno preso a prestito dai partiti di altri paesi a cui volevano avvicinarsi parole e posizioni che ridette in Italia suonano minacciose o difficilmente decifrabili. La campagna contro la lobby LGBT e l’ideologia gender, ad esempio, era già stata montata dalla destra ungherese e polacca a giustificazione di politiche discriminatorie nei confronti dei non eterosessuali.
Dalla destra trumpiana istruita da Steve Bannon hanno preso ammiccamenti a varie teorie del complotto (da rivisitazioni del Piano Kalergi al Grande reset pandemico) in cui, accanto ad una sinistra demoniaca, compare come altro onnipresente attore diabolico la finanza internazionale, talvolta impersonificata dal solito George Soros, ebreo, definito “usuraio” in un famoso tweet di Giorgia Meloni del 2019.
Dai conservatori americani hanno preso pure la polemica contro la cancel culture (detto proprio così, in inglese), che neanche i meglio informati tra gli attuali elettori di FdI saprebbero dire cos’è né comunque potrebbero dire quali inusuali e preoccupanti declinazioni avrebbe avuto di recente in Italia.
Il bluff del presidenzialismo
Sulle policy hanno elaborato proposte e documenti di qualità variabile. Quelli prodotti dall’ufficio studi incardinato nel gruppo FdI del Senato e diretto da Giampiero Fazzolari sono di solito ben costruiti. Nel complesso, considerando il parallelo slittamento del PD verso una sinistra universalista, verde, libertaria, delineano con una certa coerenza il polo opposto di una destra protezionista (tesa a proteggere anche settori dell’economia poco efficienti, sfidati dalla digitalizzazione o dalla concorrenza globale), produttivista, custode di valori tradizionali.
Proprio sul cosiddetto “presidenzialismo”, a cui Giorgia Meloni ha dato tanta enfasi, la proposta di FdI presenta evidenti difetti, a cominciare, anche in questo caso, dall’uso abusivo del termine.
Si chiama infatti “democrazia presidenziale” un ordinamento in cui gli elettori conferiscono, parallelamente, due mandati, di durata prestabilita e indipendente l’uno dall’altro, al presidente (che è capo del governo) e ai parlamentari. Il presidente eletto non ha “tutti i poteri”, come si è letto pure su grandi e nobili testate.
Anzi, come è noto, rischia di rimanere zoppo se non ha il supporto della maggioranza parlamentare. Ma, anche se non gli aggrada, la maggioranza parlamentare dovrà comunque sopportare il presidente per tutta la durata del (di lui) mandato perché non può sfiduciarlo.
Dicesi “democrazia parlamentare” un ordinamento in cui il governo entra in carica se gode della fiducia (esplicita o implicita, o anche solo della non sfiducia) della maggioranza parlamentare. Quindi può cadere se viene sfiduciato e il parlamento più essere sciolto se non è in grado di esprimere un governo.
Nel primo caso (regimi presidenziali) i due mandati del parlamento e del capo del governo sono paralleli e indipendenti, nel secondo caso (regimi parlamentari) sono in sequenza e connessi.
Il progetto Meloni propone un ircocervo. Secondo la riscrittura dell’articolo 95: «il presidente della Repubblica [che rimane anche Capo dello Stato, rappresentante dell’unità nazionale e garante della Costituzione] dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri, con il concorso del primo ministro».
Il «primo ministro» dovrebbe essere quindi un esecutore dell’indirizzo politico espresso dal presidente. Ma può essere sfiduciato dal parlamento (quindi per restare in carica, deve avere il sostegno della maggioranza parlamentare).
In ogni caso, per “eseguire” le indicazioni del Capo dello Stato dovrebbe presentarsi in parlamento per farsi approvare progetti di legge e bilanci. Quindi, se per esempio fosse rieletto Sergio Mattarella, come ipotizzato da Silvio Berlusconi, governo e parlamento dovrebbero dare seguito, per obbligo costituzionale, all’indirizzo politico dettato dal presidente anche se la maggioranza parlamentare fosse in mano al centrodestra!
La proposta sembra pensata assumendo che “se così viene scritto in costituzione l’Italia diventerà d’incanto come la Francia” … dove però la circostanza che il primo ministro sia un esecutore del presidente non è prescritta dalla Costituzione ma è prodotta da una serie di fattori politici e istituzionali difficilmente replicabili: che i tempi delle due elezioni (presidenziali e parlamentari) e i due relativi sistemi elettorali siano tali da favorire la formazione di una maggioranza parlamentare politicamente allineata al presidente, che dunque i principali leader di ciascuna area politica siano indotti a candidarsi alla presidenza della repubblica invece che ambire alla premiership, che l’area politica risultata vincente alle elezioni parlamentari rimanga fedele (sottomessa) al presidente per tutta la durata del suo mandato.
Non a caso, la Francia è l’unico paese in cui funziona l’intera alchimia. Una alchimia che, peraltro, consente a un leader sostenuto dal 25-27 per cento dei consensi popolari di controllare tutte le istituzioni (presidenza, parlamento, governo).
In Austria, Bulgaria, Finlandia, Irlanda, Lituania, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia il capo dello stato è eletto direttamente dai cittadini ma i relativi sistemi politico-istituzionali non funzionano in maniera significativamente diversa da quelli degli altri paesi a democrazia parlamentare. Scrivere in costituzione che il Presidente dirige la politica nazionale, quando è molto improbabile che sia in condizioni di farlo, è assurdo e crea le premesse per conflitti tra poteri dello stato.
Governo più debole
I leader del centrodestra sembrano aver capito che qualcosa nel progetto originario non quadra e quindi nel programma comune parlano solo di “elezione diretta del presidente della Repubblica”. Una soluzione che, dal loro punto di vista, serve forse ad evitare quanto è accaduto negli ultimi trent’anni, durante i quali il Cs, pur avendo quasi sempre raccolto meno consensi tra gli elettori del Cd, ha sempre espresso il Capo dello Stato.
Al contrario di quanto Giorgia Meloni continua a dire, la sua proposta non garantisce che “i cittadini decidano chi deve governare”, non rafforza il capo del governo, anzi lo debilita, non fa scomparire i “governi calati dall’alto”, non rende più chiare le responsabilità, anzi le rende potenzialmente più confuse. L’elezione diretta del Presidente della Repubblica (senza l’aggiunta di altre stranezze) potrebbe cancellare gli imbarazzanti negoziati tra leader di partito a cui abbiamo assistito nel 2022 prima che ripiegassero sul secondo mandato a Mattarella. Con tutta probabilità appassionerebbe l’elettorato più di altre consultazioni, mentre rischia allo stesso tempo di politicizzare il profilo di chi dovrebbe rimanere sopra le parti. Questi sono i termini e i nodi reali del problema. Il presidenzialismo non c’entra.
Eppure, perfino il segretaro del Pd Enrico Letta, solitamente abituato a entrare nel merito, ha contribuito a legittimare l’equivoco. Ha sostenuto che «chi propone oggi la torsione presidenziale non sta proponendo un aggiustamento della Carta ma la sua cancellazione per andare verso un impianto sbagliato che gioca sull’uomo forte o la donna forte».
Nel dirlo, ha rimosso che vari esponenti del Pd suoi alleati (tra cui ad esempio il cauto Dario Franceschini, non Matteo Renzi) hanno avuto momenti di entusiasmo per il sistema francese.
Anche loro, dunque, sarebbero cancellatori della Costituzione. Ma siccome parliamo di persone abituate a studiare, è molto probabile che sia Meloni sia Letta (al contrario di vari follower e commentatori) siano consapevoli di giocare a fini comunicativi con un bluff, ciascuno parlando alla sua parte: la prima a chi piace l’idea di poter eleggere direttamente l’uomo o la donna forte, il secondo a chi vede o vuole vedere in questa proposta un indizio della deriva…
Questo articolo riprende alcuni dei temi sviluppati in una ampia ricerca dell’Istituto Cattaneo su Fratelli d’Italia in corso di svolgimento dall’inizio del 2022 che confluirà in un volume di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati in uscita nei primi mesi del 2023 presso il Mulino.
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