«Ancora un femminicidio…»: quanto spesso ci capita di ascoltare queste parole in apertura di servizi del telegiornale? Troppo. Per la precisione almeno una volta ogni tre giorni. Questi sono i numeri, quando parliamo di donne uccise in ambito familiare da mariti, compagni o ex, padri, fratelli, parenti.
È una lunga scia di sangue quella segnata dalla cronaca, in particolare in questa estate atroce in cui a perdere la vita, per mano di uomini incapaci di accoglierne e rispettarne la libertà, sono state anche ragazze minorenni o giovanissime.
La parola “femminicidio”, usata con macabra frequenza, è arrivata così ad abitare il nostro linguaggio quotidiano. Ed è avvenuto, questo, dopo anni di attivismo dei movimenti delle donne per cambiare la narrazione della violenza, per sostituire locuzioni come “delitto passionale”, “raptus di follia” o “dramma della gelosia” con un termine capace di indicare, insieme al genere della vittima, anche la motivazione, segnalando tutti i casi in cui le donne sono uccise “in quanto donne”.
Come spesso accade, però, la diffusione del termine rischia di semplificarne o banalizzarne il significato. Può essere utile allora andare a riscoprirne la storia e la complessità, perché dalle parole passa la possibilità di una lettura più adeguata del fenomeno, e di misure di prevenzione e contrasto all’altezza della sua gravità.
La storia
La prima radice da riscoprire è quella che porta all’uso del termine femicide – femmicidio – da parte del femminismo statunitense, fin dagli anni Settanta. In ambito criminologico, è stata Diana H. Russell la prima a usarlo, denunciando come l’uccisione di donne si radichi in una cultura sessista che propaga, promuove, giustifica, legittima la loro disumanizzazione.
In questo senso, l’autrice ha potuto parlare di una «politica» dell’ammazzare le donne. E il richiamo alla dimensione politica sembra ancora oggi prezioso, per contrastare la tendenza a derubricare questo tipo di violenza come un problema privato, estraneo al campo di interessi dell’azione pubblica. In realtà, tale è il peso dell’inazione, delle mancanze, degli errori commessi dagli attori che dovrebbero concorrere a prevenire la violenza e a evitarne gli esiti fatali, che si può considerare ogni femminicidio come un fatto politico.
L’altra radice di questo termine rimanda allo spagnolo feminicidio: un concetto che ricomprende un’ampia gamma di comportamenti, che costituiscono altrettante forme di violenza esercitate sulle donne allo scopo di annientarne la soggettività sul piano psicologico, simbolico, economico e sociale. Ad averne promosso l’uso a livello mondiale sono stati soprattutto i movimenti femministi dell’America Centrale e del Sud.
Per Marcela Lagarde, antropologa messicana, si tratta di portare l’attenzione sulle numerose e diverse violazioni dei diritti delle donne commesse in ambito pubblico e privato – violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che, «ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine».
Violenza sistemica
Adottando il termine “femminicidio”, quindi, cogliamo il carattere non isolato, non episodico, dell’atto omicida, ma il suo radicamento all’interno di pratiche sociali misogine. Cogliamo, altresì, la dimensione collettiva della responsabilità per il loro perpetuarsi.
Si intende che la responsabilità penale è sempre individuale. Ma quando impariamo a leggere l’uccisione di una donna per motivi di genere come l’esito di una storia di discriminazioni, come il prodotto di un ordine sociale e simbolico che costringe metà della popolazione in una posizione di subordinazione, allora diventa chiaro quanto insufficiente possa rivelarsi un’azione orientata solo ad assicurare alla giustizia gli autori degli atti di violenza estrema. Che è invece la risposta che tipicamente offre la politica, in particolare quella della destra law and order.
Trasformare in profondità i rapporti di potere tra i generi, scardinare un sistema che opprime le donne a livello economico, sociale, politico, culturale, è senz’altro un compito più impegnativo rispetto a promulgare leggi che aggiungano o aumentino le pene. Ma se si vuole prendere sul serio la lettura del fenomeno che le parole “femmicidio” e “femminicidio” portano con sé, non ci sono scorciatoie possibili.
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