- Del femminicidio di Primavalle a Roma colpisce l’efferatezza unita alla futilità dei (presunti) motivi che avrebbero portato un suo coetaneo a ucciderla a coltellata. È la stessa violenza “banale” che ha portato alla morte poche settimane fa Giulia Tramontano.
- Possiamo parlare di cultura del controllo e del possesso, radicata in una storia di assoggettamento delle donne al potere maschile. Ma resta lo sgomento, soprattutto quando gli autori del crimine appartengono a generazioni che con le donne hanno socializzato, fin dall’infanzia, alla pari.
- Tanto più forte si fa il senso di fallimento per non aver saputo prevenire queste morti. Un fallimento di cui prima responsabile è la politica.
Un rifiuto tra i rifiuti: così si riduce il corpo di una donna giovanissima, 17 anni, Michelle Causo, ritrovata senza vita in un sacco nero in un carrello della spesa. Uno «scarto», come quelli di cui parlava Zygmunt Bauman pensando ai «rifiuti umani» della globalizzazione – i migranti, richiedenti asilo, rifugiati – accomunato a questi destini dal fatto di rappresentare una vita meno degna di essere protetta, una vita che non conta.
Colpisce, del femminicidio di Primavalle a Roma, l’efferatezza unita alla futilità dei (presunti) motivi che avrebbero portato un suo coetaneo a ucciderla a coltellate. Forse un rifiuto sessuale, forse – si dice – un minuscolo debito.
Ma è la stessa violenza “banale” che ha portato alla morte poche settimane fa Giulia Tramontano. L’autore del delitto, Alessandro Impagnatiello, ha dichiarato in quel caso di averla uccisa perché «stressato».
Quanti limiti psicologici, oltre che morali, deve infrangere un ragazzo, un uomo, per arrivare ad accoltellare un’amica, un’amante, una fidanzata? Cos’è che fa della violenza estrema un “rimedio” all’insostenibilità di un conflitto, di una delusione, di un rifiuto?
Parlare di cultura del controllo e del possesso, radicata in una storia di assoggettamento delle donne al potere maschile, coglie senz’altro il punto. Ma resta lo sgomento, soprattutto quando gli autori del crimine appartengono a generazioni che con le donne hanno socializzato, fin dall’infanzia, alla pari: stesse scuole, stessi campi da gioco, stessi consumi, abitudini, divertimenti.
E tanto più forte si fa il senso di fallimento per non aver saputo prevenire queste morti. Un fallimento di cui prima responsabile è la politica.
Dopo l’omicidio di Giulia Tramontano, il Consiglio dei ministri ha varato un insieme di misure per rendere più severe le pene, accelerare i tempi della giustizia, rafforzare le misure di precauzione. Una “stretta”, la si definisce in gergo, in linea con lo stile di intervento del governo di Giorgia Meloni su tutti fenomeni che provocano allarme sociale: controllo, sanzione, repressione.
Manca dal quadro, però, uno sforzo rivolto alla prevenzione, che è una della quattro “p”, la più trascurata, della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa – accanto a protezione delle vittime, procedimento contro i colpevoli e politiche integrate.
Se di prevenzione si parla, nelle politiche del governo, è per indicare misure di “prevenzione secondaria”, cioè volta a identificare situazioni di pericolo per evitare che forme di violenza già in essere conducano a esiti mortali. E ben vengano simili iniziative, considerato che i femminicidi sono sempre preceduti da segnali non colti o risposte insufficienti alle domande d’aiuto.
Ma è evidente che questo secondo livello di intervento non è sufficiente a prevenire l’insorgenza del fenomeno. Il livello “primario”, quello su cui siamo più carenti, riguarda la promozione di una cultura non violenta dei rapporti interpersonali, il contrasto alle disuguaglianze di potere tra uomini e donne, la decostruzione degli stereotipi di genere.
E questo richiede programmi di educazione all’affettività, alla sessualità, alla parità di genere, da introdurre fin dai primi anni di scuola.
Su un simile terreno, però, la destra non solo manca di impegnarsi, ma fa autentica opposizione. È dai partiti che oggi sono al governo che sono venuti, nell’ultimo decennio, gli attacchi più feroci all’educazione per la prevenzione della violenza, sotto il vessillo della battaglia contro il “gender”, cioè il presunto pericolo di pervertimento degli orientamenti sessuali, dell’identità di genere, dei modelli familiari.
Ancora a maggio di quest’anno, con motivazioni simili, le delegazioni di Fratelli d’Italia e Lega si sono astenute nelle votazioni al Parlamento europeo sull’adesione dell’Ue alla Convenzione di Istanbul.
Eppure, il governo dovrebbe saperlo, non c’è “stretta” che possa funzionare senza un impegno largo, a tutto campo, sulle radici della violenza. Perché la repressione interviene, troppo spesso, quando i corpi delle donne giacciono già tra i rifiuti.
© Riproduzione riservata