Se il 5 novembre Donald Trump prevarrà nelle elezioni presidenziali, porterà a compimento il processo di erosione delle libertà conquistate dalle donne nell’ultimo mezzo secolo? Al di qua dell’oceano, l’ascesa della destra radicale farà dell’Europa uno spazio sempre meno vivibile e più pericoloso per i gruppi a rischio di discriminazione di genere o sessuale? E cosa subirà chi ne difende i diritti?

Domande come queste racchiudono la paura delle donne in un’epoca nuova, in un tempo in cui, anche nel mondo euro-atlantico, cresce il timore della recessione democratica e si incrina la rappresentazione di un corso storico orientato positivamente verso l’universalizzazione e la moltiplicazione dei diritti e delle libertà fondamentali.

Dopo decenni di fiducia nell’inesorabilità del progresso verso l’uguaglianza tra i generi e il riconoscimento delle prerogative delle minoranze, si fa strada la consapevolezza di una diversa possibilità: quella di una storia non lineare, fatta anche di interruzioni, rallentamenti, inversioni di rotta.

L’autodeterminazione

Negli ultimi anni, la regressione ha interessato in particolare l’ambito dei diritti sessuali e riproduttivi. Nel mondo si moltiplicano le iniziative legislative per restringere o abolire le possibilità di accesso legale all’aborto. Negli Stati Uniti, nel 2022, la Corte suprema ha rovesciato, con la sentenza Dobbs v. Jackson, la precedente Roe v. Wade, che per cinquant’anni ha garantito la tutela costituzionale federale di questo diritto.

In Polonia, nemmeno la vittoria della Coalizione civica nel 2023 è riuscita finora a ripristinare la legalità dell’interruzione di gravidanza, dopo il divieto sancito dal Tribunale costituzionale controllato dalla destra di Diritto e giustizia. Stiamo procedendo verso un tempo di nuovi attacchi, coordinati e massicci, contro l’autodeterminazione delle donne?

Con la paura le donne hanno sempre convissuto. Con la paura del giudizio, del controllo, della punizione, della violenza, nello spazio domestico come in quello della città, nei luoghi di vita e in quelli di lavoro. E il desiderio di liberarsi dalla paura è stato ed è un tema portante del discorso e dell’azione femminista: dai romanzi di autrici come Erica Jong o Lidia Ravera, che raccontano l’emancipazione dalla «paura di volare», alle tante mobilitazioni e pratiche di conquista dello spazio, come le marce per «riprendersi la notte» nate negli anni Settanta.

Il femminismo è stato ed è un movimento contro la paura. Alimentato, soprattutto nei decenni del dopoguerra, da dosi massicce di speranza. Se però ci interroghiamo sulla paura delle donne oggi, ci troviamo a misurarci anche con aspetti nuovi. Il primo dei quali è l’intreccio di timori molteplici che agitano questi anni Venti del nuovo millennio.

Nuove guerre e scontri tra potenze, tensioni politiche e minacce autoritarie, incertezza economica nella crisi della globalizzazione, cambiamento climatico, rischi pandemici sono solo alcuni degli elementi che alimentano l’ansia per il domani. Un sentimento aggravato di vulnerabilità delle vite si fa strada nella «policrisi», insieme al pessimismo sulle prospettive di sopravvivenza degli equilibri tra protezione e libertà faticosamente conquistati e mai consolidati nelle democrazie avanzate.

Lo Zeitgeist degli anni Venti

La paura appare come lo Zeitgeist degli anni Venti. E la paura delle donne ne è un’espressione manifesta. Ma la paura del tempo non è solo quella che le donne provano, è anche quella che il movimento politico delle donne, il femminismo nelle sue varie declinazioni, insieme a movimenti alleati come quello Lgbt+, suscitano in settori della popolazione e parti del mondo politico e culturale che vedono nell’avanzata di nuovi diritti e libertà una minaccia per la conservazione di un ordine fondato su privilegi di genere e gerarchie sessuali.

Una delle manifestazioni più eloquenti dell’ansia che circonda il cambiamento dei modelli familiari, la pluralizzazione degli stili di vita e d’amore, la conquista di nuovi spazi di protagonismo sociale da parte di soggetti tradizionalmente esclusi dal potere – le donne, le minoranze sessuali e di genere – è la proliferazione di movimenti anti-gender.

Judith Butler, nel suo Chi ha paura del gender? (Laterza 2024), si interroga proprio su questo terrore. Nel discorso della destra reazionaria il «gender», costrutto tanto vago quanto evocativo di forze distruttive della morale, dei costumi, dell’intero ordine sociale, ha smesso da tempo di rimandare alle distinzioni anagrafiche, o a un campo di studi accademico, per indicare invece un pericolo per l’ordine sociale, «una minaccia per la vita, per la civiltà, per la società, per la scienza, per la logica, per la religione».

In quanto «fantasma» dotato di straordinari poteri distruttivi, scrive Butler, il «gender» è capace di catalizzare e intensificare il panico sociale, in tempi di incertezza radicale, deviandolo da fonti di legittime paure come la distruzione climatica, l’intensificazione della precarietà economica, la guerra. E allontanando così la soluzione a questi problemi, oltre a chiudere l’orizzonte del futuro come temporalità idonea a contenere il progetto collettivo di una «buona vita».

I richiami al passato

La tonalità affettiva dominante nell’offerta politica della destra reazionaria è infatti, coerentemente, quella della nostalgia. La meta da raggiungere non è nel futuro, è piuttosto in un sistema di simboli inteso a evocare le radici, la tradizione da conservare.

È nella triade valoriale «Dio, patria e famiglia», che rompe con l’idea di progresso, con la forza che ha sostenuto nell’ultimo secolo i progetti di emancipazione dalla diseguaglianza e dall’oppressione. Nella prospettiva della destra, gli avanzamenti sul terreno dei diritti delle donne, delle persone Lgbt+, delle minoranze non sono conquiste ma eccessi da rimuovere, per consentire la rifondazione dell’ordine sociale su una presunta «natura», su ciò che è senza tempo: la famiglia «naturale», la patria come grande famiglia.

Se il richiamo al passato allontana la visione di soluzioni di tipo emancipativo allo sconforto, allo smarrimento, alla paura del presente, e prospetta società più divise e diseguali, come si può ridirezionare lo sguardo verso il futuro? Come si fa a ridare forza all’emozione politica della speranza? E come può il femminismo, muovendo dalla paura delle donne e di tutti i soggetti a rischio di discriminazione, farsi interprete e guida delle aspirazioni al cambiamento?

Come scrive Sarah Ahmed nel suo Vivere una vita femminista (ETS 2022), «la speranza anima la lotta», non solo perché ci fa intravvedere un futuro possibile ma anche perché ci sospinge avanti quando il cammino è difficile e sostiene i nostri sforzi per rendere possibile qualcosa in cui crediamo.

Di contro, la nostalgia del passato si alimenta della sfiducia nella possibilità del cambiamento e nel potere di produrlo collettivamente. La perdita di un orizzonte collettivo ingenera il senso di impotenza che affligge la politica. Perciò, per volgere la nostalgia in speranza, è necessario che la percezione di possibilità e la prefigurazione di un’alternativa si saldino con la cognizione di un «noi» politico, capace di unire la visione all’organizzazione.

I movimenti femministi, nonostante le nubi che si addensano all’orizzonte, figurano anche oggi non solo come una delle forze sociali più vitali contro le minacce alla sopravvivenza e alla libertà dei soggetti più vulnerabili, ma anche come spazi di apprendimento della «capacità di aspirare».

Una capacità che – insegna Arjun Appadurai – non è mai semplicemente data, ma va alimentata con l’immaginazione, con la capacità di mettere in discussione un ordine, di contestarlo, anziché subirlo passivamente; soprattutto, con la pratica. E il femminismo, sostiene Giulia Siviero nel suo Fare femminismo (Nottetempo, 2024), è prima di ogni cosa un «movimento di pratiche di libertà che vanno rimesse al mondo continuamente».

È questo fare, che genera attivazione collettiva rimettendo al mondo la libertà, a sostenere la speranza, anche in un tempo dominato dalla paura.

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