Sarebbe bello soprassedere sul dissing tra Fedez e Tony Effe, ex membro della Dark Polo Gang ed ex amico del rapper milanese, riducendo tutto a un bisticcio tra due cantanti rimasti alle scuole medie.

C'è un tema però che serve affrontare, ed è il linguaggio violento e sessista che continua a perpetuarsi nel rap e nei suoi generi derivati, hip hop e trap, da sempre. Il rap, la trap, sono sessisti? È accettabile che ancora, nel 2024, i temi di una canzone siano una donna da contendere, battute sulla virilità e sulla vita sessuale intesa in modo insultante?

Potremmo ragionare a lungo su come tutto questo sia in fondo solo una grande operazione di marketing, che ha già portato ai due sfidanti milioni di ascolti e lauti guadagni. Ma, a maggior ragione, la visibilità di questi artisti dovrebbe farci interrogare sui contenuti, sul senso di continuare a portare avanti i peggiori stereotipi sessisti.

«È un problema enorme, una tendenza all'uso di un linguaggio machista e sessista che nel rap e nella trap è forse maggiore che in altri generi», spiega Tommaso Sarti, ricercatore dell'università di Padova che si occupa di trap e autorappresentazione dei gruppi giovanili.

«Serve però che ci ricordiamo che noi cresciamo e viviamo all'interno di una società che, per come parla di relazioni, per come descrive la figura femminile, ha tutta una serie di problematiche mai risolte. Tutto questo viene da ben prima e va ben oltre una semplice scena musicale. È tutto parte di una cultura patriarcale che è lo specchio della nostra società. Solo il rap e la trap sono sessisti? No, perché se guardiamo bene tutta la musica italiana è piena di riferimenti sessisti».

E allora perché, molto spesso, questo genere viene messo sotto accusa, come veicolo di comportamenti violenti, devianti, pericolosi?

«Perché il rap e la trap sono più facili da attaccare: sono infatti espressione di una marginalità. Togliendo i nomi più legati al mainstream, il substrato da cui arriva è quello della strada, in cui l'immaginario è quello e dove la violenza fa parte del gioco. È anche un'attitudine, in cui non sono ammessi buoni sentimenti. Questa è la realtà in cui vivono, in cui sono abituati a muoversi. Come facciamo a dire loro: tu di questo non puoi scrivere in questo modo? Il loro immaginario, spesso, è questo qui. È sbagliato poi dare tutte le colpe a un genere musicale. Così facendo ci togliamo ogni responsabilità, attacchiamo la cosa più facile e visibile, la musica, dicendo: sono loro i cattivi, da cui derivano la violenza giovanile, il sessismo nella società. E noi ci togliamo quest'impiccio, non guardiamo alle nostre, di brutalità».

Chi rompe gli schemi

In un mondo, quello musicale in generale, prevalentemente maschile e dunque ricolmo di atteggiamenti e stereotipi sessisti, c'è chi cerca di proporre un approccio diverso, ridefinendo totalmente i temi in questione. Come la rapper Chadia Rodriguez che, soprattutto all'inizio del suo percorso, con brani come Bitch 2.0, ha preso alcuni stereotipi rovesciandoli in chiave di rivendicazione femminista.

Oppure Wissal Houbabi, autrice e performer italo-marocchina, che mette insieme nel suo lavoro cultura hip hop, femminismo, il racconto della diaspora. E ancora Yung Paninaru, che con ironia tagliente racconta dell'essere gay e dello spettro spaventoso del gender, riprendendo uno spauracchio che agitava già qualche anno fa la rapper e freestyler McNill.

«Ci sono un sacco di esperienze che provano a rompere questo schema, ma perché ha successo chi descrive la donna in modo offensivo?», continua Sarti.

«È il mercato che lo vuole. Alle major interessano poco testi d'altro tipo. Perché probabilmente interessano poco anche alla maggior parte della gente. Il mercato discografico ha una forza assurda, è facile fare critica verso il sessismo, verso la violenza della società, ma allo stesso tempo chi è che perpetua tutto ciò? È il mercato, con le case discografiche che tirano fuori contratti da migliaia e migliaia di euro per pubblicare questo tipo di cose».

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