Un “Predator” a caccia di forme di vita avrebbe fatto fatica a divorare qualcuno ieri sera. Una mestizia lattiginosa, interrotta da arzilli tentativi dance, come nelle residenze per anziani dove non si balla più la Mazurka ma gli Chic e i Moroder. I protagonisti della prima serata sono residui delle discoteche, relitti di una perduta civiltà ai bordi delle strade provinciali.
Un vecchio, ritrito sport, quello di parlar male del Festival. Ma siamo in Liguria. La regione che ha la squadra di calcio più antica d’Italia (il Genoa, dal 1893), che ha la popolazione anziana più fitta d’Italia e tra le più senescenti del mondo, che ha il tasso di denatalità tra i più bassi del globo terracqueo. E, certo, gli spot di promozione del territorio più estremi che si siano mai visti (anche quest’anno, a pioggia, durante lo show).
In un vecchio, glorioso capolavoro di decenni fa, “Predator”, erano le tracce di vita – il baluccichio fosforescente dato dalla temperatura della vittima – a farla individuare. Predator avrebbe fatto fatica a divorare qualcuno, nella serata di ieri. Nemmeno un lavoro di Anish Kapoor – artista specializzato in cavità apparentemente senza fondo – avrebbe potuto fare di meglio: un vuoto da malattia neurodegenerativa (con tutto il rispetto per la madre di Cristicchi, va ricordato che rappresentano un’enorme percentuale di cause di morte, e in crescita) e un’infinita malinconia hanno dominato la scena.
Specie negli arzilli tentativi dance: lo stacchetto, abissale, pseudovitalistico e speriamo non governativo (se si può sperare per il governo, che proprio non ne ha bisogno, anzi) ma certo simile a intrattenimento da Rsa. A quel punto, meglio la “Società dei Magnaccioni” o “Faccetta Nera”.
Le presenze femminile sono costrette a esibizioni del corpo (anche fasciate) che sembrano avere lo scopo di dilatare i vasi sanguigni dei binari maschietti, ma sono un ricordo lontano di una vitalità erotica che non sta più qui. Quelle maschili – ad eccezione forse di Lucio Corsi (anni 70 o peggio indie 2012 comunque, derivativo) e del divino, sanamente testosterico Rocco Hunt, e forse anche di Lauro – vagano in interzona dove il desiderio non trova esistenza o perlomeno parole adeguate. Del resto sarebbe stato miracoloso perché sono cinque/sei autori di tormentoni a dominare incontrastati il canzoniere: tra questi Petrella, Michelangelo, Raina Abbate, Faini. Come succede da un bel po’.
Pur dotati, son stanchi, sottoposti a una fabbrica sentimentale da sweatshop thailandese. E che tanto ci fanno capire di come la macchina economica dell’industria musicale si sia spostata sulla parte editoriale, visto che le registrazioni dalle piattaforme di Spotify e Apple non guadagnano una mazza. Le canzoni pure e semplici, quelle che si distorcono tra le risate in quei posti di karaoke che hanno sostituito i club che una volta si chiamavano discoteche, da tempo diventate relitti di un’altra perduta civiltà che si vedono ai bordi delle strade provinciali.
Da queste ultime – e dalle coeve, parallele “radio libere” a cavallo degli anni Settanta e Ottanta – provengono i “protagonisti” barcollanti della prima puntata: Conti, Gerry Scotti mai così devitalizzato, lo stesso Jovanotti costretto da se stesso a una performance che si doveva risparmiare a tutti i costi. Ci torneremo a brevissimo. Considerato che negli ospizi non si ballano più le mazurke ma bensì gli Chic e Giorgio Moroder, non è difficile capire come le lancette del tempo si siano fermate, costringendo anche l’ex parte sgambettante del paese (l’hip hop diciamo, quello di Shablo con un Tormento che sembrava uscito da una comunità; la performance letteralmente stonata di Tony Effe, tutto levigato e ripulito chissà perché) ad un’immersione dentro un lago di mestizia lattiginosa – forse Joan Thiele ne sta fuori, e una Giorgia che sembra aver fatto un ciclo di terapie di ossigeno in vena – che andremo presto a scandagliare da soli, essendo purtroppo scomparso da poco il luminare dello studio partecipato della melanconia, Eugenio Borgia.
Forse gli emblemi più commuoventi della prima serata sono da negozio di ortopedia, l’accenno alla panciera di Gerry e la geniale tensostruttura-abito di Antonella Clerici nella sua prima uscita: una forma argentea con vitino ad ancora che mal celava pezze elastiche nere ai fianchi per costruire una geniale illusione ottica di silhouette. Altro che body positivity.
Clerici sta con Vittorio Garrone, della famiglia proprietaria dell’Erg, raffinerie ora quasi completamente dismesse che hanno deliziato per decenni il territorio (e quello attiguo bassopiemontese). Tutto passato, come a (tra)passati sono stati dedicati i numerosi saluti di inizio show.
Il terrore per ritorni ologrammatici o genetici di defunti e i timori per la sostituzione di autori con sapienti (a questo punto) composizioni scritte con l’A.I. da programmi come l’ottimo Suno sono invece da invocare, invece che spaventare. Magari avessimo visto quella voglia di vivere, non importa se interamente digitale.
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