Tutta l’Italia in questi giorni fluttua fra le galassie e gli altri mondi, sciama fra i campi del Tennessee e le strade di Pechino, vaga nel vento gelato di Pietroburgo fra le guardie rosse e si svaga per giardini di aranci e limoni, rievoca le estati di infanzie lontanissime e i libri studiati in giovinezza e le stagioni perdute dell’amore e della rivolta. Tutta l’Italia si culla e danza sulle melodie elegiache e astrali del suo cantore, che ha attraversato le correnti gravitazionali e trovato la sua stella, e da lassù sembra dirigere un nostro sgangherato concerto di memorie e rimpianti.
Attraversato appena dal brivido di altre dimensioni, dal dubbio inconfessabile che delle leggi del mondo si possa far dono invece di schiantarcisi coi propri fallimenti. Tutta l’Italia se lo chiede – che cosa resterà di me, del transito terrestre, delle speranze deluse, di tutte le vite che non fioriscono e non fioriranno, dei nostri figli. Tutta l’Italia per qualche giorno forse unita dalle Alpi alla Sicilia.
Nel ricordo del cantore di questa povera patria, coi suoi governanti fra i quali quanti inutili buffoni – eppure devastata dal dolore non è lei, non solo lei, lo è tutta la terra che galleggia su mari di irrazionalità, dove la violenza più arbitraria piove dal cielo con le bombe, sopra l’umiliazione e la miseria. Eppure lo sguardo vuol fuggire e il respiro allargarsi di civiltà in civiltà fino ai Sumeri…Grande Battiato, che in una musica tanto popolare e colta, tanto vecchia e nuova, nel diavolo che suona il violino di Paganini mentre gli fan coro gli angeli e le meccaniche divine della canzonetta, lo hai forse trovato, il nostro centro di gravità permanente.
Troppo melodiosi per pensare, troppo disincantati per sognare, troppo frustrati per imprendere, troppo sognatori per concludere, troppo scettici per decidere, troppo privilegiati o defraudati per combattere l’ingiusto, troppo consortili per la libertà, troppo particolari per la luce degli universali, troppo mammisti per tentare il largo, troppo affabili per la solitudine che crea, troppo diffidenti per cooperare, troppo sfiduciati per la virtù civile, troppo invidiosi per concorrere, troppo anarchici per conformarsi e troppo conformi per dissentire davvero, troppo insicuri per aprire ai veri altri che bussano, troppo politici per essere cosmopolitici.
E allora alla fine tutti torniamo lì, e il gran concerto sgangherato dei giorni confluisce in una sola canzone, e ciascuno la fischietta in cuore e la sussurra agli amici: «Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie… Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo/Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai….Dalle ossessioni delle tue manie….E guarirai da tutte le malattie/Perché sei un essere speciale/ Ed io, avrò cura di te».
Chi non vorrebbe cantarla a qualcuno. E chi, fra noi insegnanti di tutte le scuole di ogni ordine e grado, non avrebbe voluto cantarla a ogni suo allievo. Perché chi se non noi avrebbe dovuto, potuto “guarire” dalla confusione del cuore questo paese, che come tale è ancora giovane. O almeno provarci. Pochi maestri veri del secolo scorso – ma ignorati, ma traditi da caterve di falsi e cattivi maestri – avevano riacceso la dolce luce dei lumi d’Europa, e scoperto che l’etica ha con la logica un vincolo essenziale, e il pensiero rigoroso si confonde con l’umiltà del percepire e del sentire, delle cose, non solo l’infinito di realtà che ciascuna racchiude, ma anche la richiesta, l’invito, la norma che ciascuna leva al nostro apprendere, e al nostro giusto fare.
È così che quelli fra noi che a questi maestri avevano creduto provarono a cambiare il lamento nell’offerta. Di un senso: non fattuale ma ideale. Non sono mai facili, le vie che portano all’essenza. Ma quell’altro filosofo dalla sua stella sorride: nulla è cambiato. Non avete cambiato le menti, nelle anime non avete scritto. Ha ragione, Maestro. Non siamo stati all’altezza.
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