Il G7 aveva quasi solo un’agenda turistica, tranne gli incontri di Biden: non ha neanche attirato le proteste. La rissa in aula non è casuale. La destra forza sulle le riforme, il centro civettante di Renzi non si illuda
C’è qualcosa di irreale nella situazione politica del nostro Paese. È grande il divario fra la rappresentazione gioiosa, festosa e turistica di un’Italia pronta a guidare un cambiamento nel mondo, e la dura realtà delle condizioni del Paese e della situazione politica globale.
Tre eventi, in questa scorsa settimana, vanno osservati con attenzione. Il primo è il G7. Questo G7 non aveva un’agenda politica tale da creare un interesse per l’equilibrio della crescita globale. Ha perso la luce nel passato, lo dimostra il fatto che una volta masse giovanili protestavano contro i potenti della terra, per contestare giustamente le forme della globalizzazione non ritenute socialmente accettabili: oggi invece nessuno protesta. Segno della decadenza e del quasi niente di questi consessi.
Il cappellano dei grandi
Si è cercato di coprire questo niente attraverso un’iniziativa suggestiva e nuova, la presenza del Papa. Una presenza che però sembra un’offesa profonda alla funzione e al ruolo che un capo spirituale della Chiesa ha sempre tenuto nei confronti delle istituzioni politiche sovranazionali: ha declassato la funzione di un capo spirituale globale in quella di un cappellano dei grandi della terra in crisi di orientamento politico.
Il Papa ha recitato di nuovo un’omelia che aveva già pronunciato in passato sull’intelligenza artificiale: cose che va dicendo da tempo, al limite dell’ovvietà: perché per dire che l’Intelligenza artificiale non deve assegnare alla macchina il diritto di decidere della vita, non c’è neanche bisogno di essere sacerdoti, basta essere uomini di buon senso.
Invece il Papa non ha affrontato il tema centrale che pure era nella sua disponibilità, il tema della pace. Avrebbe potuto offrire una novità, anche per sottrarsi all’utilizzo subalterno della funzione di Papa per coprire il niente della politica. Avrebbe potuto chiedere, dalla tribuna di un così autorevole consenso internazionale, di essere sostenuto nella presenza nelle terre della guerra. Avrebbe potuto annunciare che andava sul terreno dello scontro, dove deve essere presente un combattente spirituale. In Terra Santa. Invece le sue parole di pace sono, al massimo, parole di preghiera: ma bisogna passare dalla preghiera alla costruzione della pace. Non è avvenuto, non avverrà.
Il problema della pace resta comunque nel sottofondo del G7. Ci sono stati incontri bilaterali significativi, tra il presidente Biden e gli altri capi di stato. Soprattutto il colloquio con Zelensky: gli Usa cominciano saggiare gli effetti che potrebbe produrre, negli equilibri internazionali, un nuovo bilateralismo, una caduta dei grandi patti di alleanza.
Cominciano a testare se il Patto Atlantico – un patto politico, sociale, militare, che integrava forze nazionali in entità sovranazionali – possa essere declassato a semplici accordi militari di tipo contingente. Vorrebbe dire che il Patto lascia il passo alle convenienze militari, limitate all’unificazione della produzione industriale e a qualche scuola di addestramento comune. Sarebbe la sanzione della disgregazione politica, che non annuncia nulla di buono per l’unificazione delle grandi aree, compresi gli Stati uniti d’Europa.
La festa a Matteotti
Il secondo evento è quello avvenuto alla Camera proprio il giorno dell’inaugurazione del G7: un’aggressione squadristica in aula. Non una rissa, ma la solenne celebrazione fascista del centenario della morte di Giacomo Matteotti, fatta con l’esaltazione e con il disprezzo della vita democratica. La violenza è servita in Parlamento come simbolo della distruzione del sistema democratico, e del superamento dell’assetto costituzionale del Paese.
È un elemento di una gravità eccezionale, che non a caso è stato tenuto coperto da parte del governo, perché dice qualcosa di profondo: che l’onda nera che c’è oggi in Europa è figlia, come cento anni fa, della distruzione della vita parlamentare. È la conseguenza della distruzione dell’ordine democratico (non la causa prima); e in Italia l’onda nera vuol essere guidata ed esaltata dai figli e nipoti di quelli che dissacrarono il parlamento nel 1924. Cento anni fa quest’onda nera fu propagata dal fascismo, e si estese dall’Italia e fino in Germania. E infatti oggi la destra di governo chiede la fine del parlamentarismo.
La forzatura del premierato
Il terzo evento è l’insistenza con cui in questi giorni il partito di maggioranza relativa accelera il processo di riforme costituzionali. L’arco anticostituzionale cerca il rapido superamento della democrazia parlamentare. Ma per farlo deve cancellare il vero significato del risultato elettorale delle elezioni europee. L’8 e il 9 di giugno oltre sette milioni di elettori non sono tornati a votare rispetto a diciotto mesi fa, e cioè rispetto alle elezioni politiche. La maggior parte di elettori sono stati persi dalla destra; una parte anche dal moderatismo civettante di Renzi e Calenda.
Ma come può il partito della premier insistere nello stravolgere la Costituzione avendo appena il 13 per cento della rappresentanza degli italiani che hanno diritto a esprimere la loro volontà? Con il 13 per cento, come crede di diventare guida creativa di un nuovo ordine, verso il superamento del sistema democratico? Sarebbe impossibile farlo, se non attraverso la via dell’esasperazione degli interventi di carattere autoritario, eliminando il più possibile le norme, l’assetto democratico e la partecipazione popolare.
Contemporaneamente, vorremmo dire a quella parte moderata, oggi inglobata dalla destra, che non può credere di creare una dialettica democratica con le forze che vogliono distruggere il sistema democratico.
Commemorare non basta
Ma anche a sinistra serve una riflessione: giusto l’obiettivo di ricreare il pluralismo politico, ma questo processo ha bisogno di una fortissima mobilitazione della parte che non partecipa alla lotta democratica e al voto.
Con le elezioni della scorsa domenica abbiamo raggiunto il punto più basso della partecipazione da parte degli elettori. È un segnale pericoloso, che ci dice che l’opera di ricostruzione della vitalità del sistema rappresentativo ha bisogno di una forte mobilitazione.
Ma non è un gioco di alternative fra dame, è un gioco che deve tornare nel Paese, affrontando l’irreversibile tendenza della destra a trovare una soluzione in democrazia: essa è generatrice di un regime autoritario.
Per la mobilitazione, la sinistra deve tener conto che non basta fare celebrazioni del passato, serve capire come rinasce il nuovo riformismo socialista, come rinasce la nuova partecipazione delle forze del solidarismo cattolico, come rinasce la nuova liberaldemocrazia. Non basta il ricordo dei grandi, che pure questo sacrificio seppero fare cento anni fa: Matteotti, Gobetti, Amendola, don Minzoni, e tutti coloro che nelle diverse grandi tradizioni culturali seppero portare la loro viva partecipazione ideale a quella che poi fu la sconfitta che il fascismo subì negli Anni 40.
La mobilitazione nasce tra le forze popolari. Dunque meno “capismo”, meno individualismo dei leader, ovunque. Perché se è vero che il pilastro non può essere quello del 13 per cento del governo, che rappresenta una minoranza infima degli aventi diritto al voto, è altrettanto vero che il pluralismo a sinistra non può nascere intorno all’11 per cento del Pd.
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