- La contesa tra Mediobanca e Caltagirone-Del Vecchio per il controllo di Generali è una vicenda che ha tutte le caratteristiche per diventare un soggetto adatto per una serie di Netflix.
- Ma è anche il segno dell’arretratezza del nostro mercato finanziario: un po’ come vedere il Trono di Spade, ma in bianco e nero. Non c’è niente di straordinario in una contesa per il controllo di una società; come non ce n’è nel nell’attivismo di un azionista a caccia di voti in assemblea per rimuovere un amministratore delegato o influenzare la decisione su una determinata operazione straordinaria.
- Quello che dà alla contesa Generali un sapore da capitalismo italiano d’antan sono i contendenti e le loro motivazioni.
La contesa tra Mediobanca e Caltagirone-Del Vecchio per il controllo di Generali è una vicenda che ha tutte le caratteristiche per diventare un soggetto adatto per una serie di Netflix. Ma è anche il segno dell’arretratezza del nostro mercato finanziario: un po’ come vedere il Trono di Spade, ma in bianco e nero. Non c’è niente di straordinario in una contesa per il controllo di una società; come non ce n’è nel nell’attivismo di un azionista a caccia di voti in assemblea per rimuovere un amministratore delegato o influenzare la decisione su una determinata operazione straordinaria. Quello che dà alla contesa Generali un sapore da capitalismo italiano d’antan sono i contendenti e le loro motivazioni.
Mediobanca vuole difendere il suo ruolo in Generali, una partecipazione che detiene da tempo immemorabile, quasi fosse un cassettista o una holding. Ma è una banca di investimento ed è strano che immobilizzi a lungo termine così tanto capitale in una società non strumentale al proprio business, quando la tendenza sul mercato è il contrario: liberare capitale per renderlo disponibile a occasioni di impiego più redditizie.
L’unica ragione plausibile è che dalla partecipazione Mediobanca tragga dei “benefici privati”, ovvero vantaggi relazionali e informativi che derivano dalla nomina dell’amministratore delegato e dalla posizione nell’organo di gestione di uno dei maggiori investitori istituzionali.
Legittimo che Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio vogliano tutelare il proprio investimento, ma è strano che agiscano come un fondo attivista o un corporate raider che punta a rovesciare il vertice di una società per acquisirne il controllo.
Per fondi e raider questa è attività istituzionale, ma Del Vecchio e Caltagirone sono prima di tutto imprenditori: il primo presiede, da azionista di controllo, la multinazionale Essilux, appena uscita da una fusione travagliata, con un nuovo amministratore delegato, in un momento di importanti cambiamenti nei comportamenti dei consumatori, nella tecnologia e nelle sistemi di produzione; il secondo, controlla diverse società quotate, che vanno dal cemento all’editoria, pur avendone lasciato la gestione ai figli.
Benefici privati e costi condivisi
La commistione tra imprenditori e finanza, specie in una posizione di controllo, non ha mai prodotto grandi risultati ed è precisamente per questa ragione che la Bce ha impedito a entrambi di esercitare un ruolo attivo nella governance di Mediobanca, di cui sono azionisti rilevanti, pur contendendogli il controllo di Generali, in un malsano groviglio di interessi.
Lecito ipotizzare che anche Caltagirone e Del Vecchio puntino in realtà a quei “benefici privati” che Mediobanca difende. Questo spiegherebbe l’assenza di documentate argomentazioni a favore e contro l’attuale vertice, e di proposte precise per l’assemblea, come invece farebbe un fondo attivista.
Per Mediobanca l’amministratore delegato Philippe Donnet merita il rinnovo avendo “gestito bene”, ma non dice sulla base di quali parametri. Caltagirone e Del Vecchio lo criticano perché la dimensione di Generali sfigura al confronto dei maggiori concorrenti, ma non spiegano come farebbero a farla diventare “grande”.
Nei sei anni in cui Donnet è stato alla guida di Generali il titolo in Borsa ha ricalcato l’indice europeo di settore: in linea con Axa, ma 13 per cento peggio di Allianz e 30 di Zurigo, per rimanere tra i grandi gruppi.
Secondo il consenso degli analisti, Generali avrà quest’anno un rendimento sul capitale inferiore ad Allianz e Zurigo (9,6 per cento, rispetto a 10,2 e 13,8) e una crescita inferiore degli utili attesi in futuro (come evidenziato da un rapporto prezzo/utili attesi inferiore).
Dove sta il valore
Anche se la gestione non può certo essere definita deficitaria, ci sarebbe quindi ampio margine per creare valore in Generali. Ma come? Non certo tramite le grandi acquisizioni che Caltagirone e Del Vecchio sembrerebbero auspicare, perché la regolamentazione pone un limite alla leva delle assicurazioni, e perché diluirebbero troppo gli azionisti se fatte con azioni.
Più percorribile la strada della redditività e della crescita prospettica degli utili, anche per aumentare i multipli ai quali il mercato valuta il titolo.
Per esempio, riducendo in modo sostanziale il peso del ramo vita che in una fase prolungata di tassi bassi non riesce a garantire un margine adeguato sul rendimento retrocesso alle polizze; o il “rischio Italia” che grava sulla compagnia per via dei tanti Btp in bilancio; oppure puntando decisamente sull’asset management. Ma nulla di preciso sulle strategie future è dato da sapere dai contendenti.
L’impressione è che per adesso conti solo il controllo, Mediobanca vorrebbe consolidarlo, Caltagirone e Del Vecchio conquistarlo, poi si vedrà. Come poi riescano a convincere gli altri investitori in assemblea a stare dalla loro parte, non si sa. Non una bella pagina per Piazza Affari. Non è la prima, ma almeno speriamo sia l’ultima.
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