Lo scontro che oppone Leonardo Del Vecchio e Gaetano Caltagirone a Mediobanca e all’amministratore delegato di Generali, Philippe Donnet, per il rinnovo del consiglio di amministrazione in scadenza il prossimo aprile, con tanto di società di Proxy Advisor (consigliano gli investitori sul voto in assemblea) schierate nei due campi, ha colori da capitalismo italiano d’antan: imprenditori-finanziari facoltosi che si contendono il potere a colpi di miliardi; le “manovre” di Mediobanca;  analisti e investitori divisi su fronti opposti.

Ma è sintomatica di una questione più generale, comune a tutte le società quotate del mondo: qual è la governance ottimale? Questione sempre più importante, per via della crescente adozione dei criteri Esg (dove “g” sta per “buona” governance) negli investimenti.

Il problema del Ceo

Per capire, meglio fare un passo indietro. Negli anni ’70, l’avvento delle grandi corporation ad azionariato diffuso ha fatto emergere il problema dell’autoreferenzialità dei manager: come rendere l’amministratore delegato (Ceo, nella prassi internazionale) responsabile verso gli azionisti, assicurando che agisca nel loro interesse e non nel proprio?

Per gli azionisti i rischi sono molti: che il Ceo si assicuri compensi e fringe benefit eccessivi e, molto più rilevante, che utilizzi in modo inefficiente le risorse finanziarie liquide generate dall’attività della società.

Il Ceo potrebbe utilizzarle per fare nuovi investimenti con una redditività insufficiente rispetto al costo opportunità del capitale, o per fusioni e acquisizioni con che non creano valore (ovvero il valore della società risultante da una fusione o acquisizione vale di meno delle due società originali) perché ha il solo obiettivo di aumentare la dimensione della società: più grande è, maggiori saranno il suo compenso, reputazione, prestigio e visibilità.

Questa  “voglia di impero” dei Ceo è più comune di quanto si pensi: l’evidenza empirica mostra infatti che la maggioranza delle acquisizioni non avvantaggia i vecchi azionisti.

Un rischio rilevante anche per Generali visto che la contesa verterebbe proprio sull’insufficiente crescita dimensionale tramite acquisizioni. 

LaPresse

In alternativa a investimenti e acquisizioni, il Ceo può decidere di restituire la liquidità agli azionisti tramite un riacquisto di azioni proprie (buyback) o dividendi.

Un buyback può essere rischioso per gli azionisti perchè indebolisce finanziariamente l’impresa (equivale ad aumentare l’indebitamento); molto spesso riduce il patrimonio netto per azione; e aumenta artificialmente l’utile se le azioni riacquistate vengono distribuite ai manager sotto forma di stock option o piani di incentivo.

Ma anche i dividendi non sono esenti da rischi perché, se eccessivi, potrebbero indicare che il Ceo tralascia progetti di investimento redditizi, ma distanti nel tempo, per allettare i soci con liquidità immediata.

Pur rimanendo pienamente nella legalità, ci sono dunque tanti modi in cui un Ceo può danneggiare gli interessi degli azionisti.

Gli amministratori indipendenti

La principale soluzione a questi problemi di governance è stata individuata negli amministratori indipendenti. La loro indipendenza dovrebbe essere quella di giudizio, ma in pratica solo quella economica e relazionale sono oggettivamente verificabili.

Per esperienza so poi che l’indipendenza non basta averla, ci vuole la volontà di usarla. E comunque non serve se manca, come spesso accade, la capacità e la profonda conoscenza del settore in cui opera la società per valutare le decisioni del Ceo su come allocare le risorse finanziarie nelle situazioni complesse descritte sopra.

Quanto ai compensi, gli indipendenti di fatto si affidano a società di consulenza che necessariamente ripropongo le strutture di compenso prevalenti per posizioni analoghe in altre società, di fatto perpetuando il sistema. All’atto pratico è legittimo essere scettici sull’impatto che gli amministratori indipendenti possano avere sulla governance.

E’ bene sottolineare che l’elemento fondamentale è l’indipendenza dal Ceo. Nel caso di Generali invece la disputa, con tanto di intervento della Consob, riguarda anche l’indipendenza dagli azionisti influenti, come nel caso di Romolo Bardin, indipendente in Generali, ma amministratore delegato di Delfin, la holding di Del Vecchio.

I consiglieri dell’assicurazione dovrebbero quindi avere una doppia indipendenza (dal Ceo e dai soci forti), oltre alla capacità e conoscenza del business necessari a valutare le decisioni del Ceo, sempre nel rispetto della parità di genere. Forse siamo più nel campo dell’astrazione giuridica che in quello della realtà. 

L’azionista non basta

LaPresse

Una situazione ironica quella di Generali, perché una corrente di pensiero ritiene che proprio la presenza di un azionista di controllo, o con una influenza rilevante, sia la migliore soluzione per la governance delle grandi corporation a capitale diffuso, in quanto questo socio garantirebbe l’allineamento degli interessi tra il Ceo e tutti gli azionisti, nel presupposto che questi ultimi condividano l’obiettivo di massimizzare il valore del loro investimento.

L’esperienza, specie italiana, ha però evidenziato come spesso un’azionista rilevante possa trarre dal controllo benefici privati, preclusi alle minoranze.

Per esempio, a Donnet si imputerebbero operazioni potenzialmente vantaggiose per il socio Mediobanca, come il suo tentativo abortito di acquistare Banca Generali a condizioni favorevoli, o l’ingresso in Cattolica, azionista di Ubi, quando la banca era sotto Opa di Intesa, di cui Mediobanca era advisor.

Dall’altra parte non si può ignorare il potenziale intreccio di interessi tra Caltagirone, Del Vecchio e Generali nel settore immobiliare.

L’effetto Esg

Impossibile che un singolo modello di governance vada bene per tutte le società, ovunque e comunque.  L’enfasi sugli investimenti Esg migliorerà il rispetto per l’ambiente delle imprese e la loro responsabilità sociale (la "e” e la “s”), ma temo che esacerberà il problema della governance.

Già è difficile definire nella pratica la governance ottimale quando il solo obiettivo di Ceo e azionisti è la massimizzazione del valore, ma quando si estende la responsabilità di impresa a tutti gli stakeholder si rende di fatto il Ceo ancora di più autoreferenziale, perché rendere conto a tanti, equivale a non rendere conto a nessuno.

E per il Ceo, o per l’azionista di controllo, diventa più facile trovare una giustificazione a politiche di investimento che non creano valore per gli investitori in quanto ogni vincolo imposto agli investimenti che massimizzerebbero il rendimento atteso, necessariamente riduce il valore monetario della società. Aggravando in questo modo gli interessi in conflitto che sono alla base del problema della governance.

Alla fine, i veri cambiamenti di governance quasi sempre si verificano quando una parte degli azionisti, delusi dai risultati, votano con i piedi: vendono il titolo, facendone cadere il prezzo in Borsa, e innescando in questo modo la pressione per un cambio del vertice e della gestione, quale che sia la struttura proprietaria.

Che vinca Donnet, Mediobanca o il duo Calgirone-Del Vecchio penso che finirà così anche per Generali.

© Riproduzione riservata