- Giorgia Meloni è una “patriota” da sempre, ma anche una leader pop. Viaggia bene sui social, a dispetto di chi la rilancia in modo polemico, e al tempo stesso sa interpretare tutti i registri, i tempi e le tonalità del comizio o della retorica congressuale.
- Al contrario di Salvini, non è andata oltre generici ammiccamenti verso la Russia di Putin. Al contrario di Berlusconi non ha imponenti conflitti di interesse, ma nemmeno le sue risorse economiche.
- Mentre eventi come la Conferenza di Milano e le campagne elettorali personalizzate, anche quelle promosse sui social, costano. Oltre che ai saluti romani, i conti del partito e le fonti di finanziamento sono forse in questa fase di crescita tra le questioni a cui dovrà fare attenzione.
Quando nel 2012 Ignazio La Russa e Giorgia Meloni decisero di ricreare una casa politica della destra uscendo dal PdL, il perimetro era ancora più circoscritto dell’ultimo Msi. La parabola di Gianfranco Fini non aveva solo allontanato chi era arrivato ad Alleanza Nazionale nella fase espansiva. Aveva anche lasciato una scia di livori personali in alcuni casi insanabili tra i nipoti di Giorgio Almirante. Ognuno aveva preso una via e fatto scommesse diverse.
Quando nel 2013 La Russa, allora presidente del partito, chiese alla fondazione che lo deteneva l’uso del simbolo di Alleanza nazionale per le Europee dell’anno successivo, lo ottenne con voto a maggioranza dopo liti feroci con Francesco Storace, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, impegnati in altre imprese.
Al netto della presenza tra i fondatori di Guido Crosetto (ex Dc, ex Forza Italia, ex sottosegretario di La Russa alla Difesa dal 2008 al 2011), il primo obiettivo di FdI fu quello di proporsi come unico autentico erede della tradizione, sul piano ideale e organizzativo.
Obiettivo raggiunto nel 2018, quando superò la soglia del 4 per cento e divenne certo che nessun’altra sigla avrebbe potuto svolgere la stessa funzione.
Nelle conclusioni della Conferenza programmatica di Milano Giorgia Meloni ha scandito «noi non volevamo essere la riproposizione di partiti della destra del passato”. Ma la denominazione completa di quello presente, secondo lo statuto approvato nel 2018, è «Fratelli d’Italia- Alleanza Nazionale», nel suo simbolo c’è la fiamma tricolore dell’Msi-Destra Nazionale, la sua conferenza programmatica di Milano (2022) si apre con un ricordo comprensibilmente commosso di Sergio Ramelli (diciannovenne ucciso nel 1975 a sprangate da un gruppo di Avanguardia Operaia) e una elegia di “Donna Assunta” Almirante affidata al presidente della fondazione intitolata a suo marito, l’uomo a cui, è stato detto, «tutti dobbiamo tutto».
Se la continuità ideale e organizzativa tra Msi-An-FdI è indiscutibile, ripetutamente rivendicata, scritta nei testi e nei simboli, segnalata dalla circostanza che una larghissima parte della classe dirigente ad ogni livello è o si sente parte di quella storia, la Conferenza di Milano non ha messo in scena una replica.
Come era ovvio, dato che oggi il partito di Giorgia Meloni è caricato dalla responsabilità di rappresentare un quinto dell’elettorato italiano e dalla plausibile ambizione di esprimere, dopo le prossime elezioni, la guida del governo.
Fine della nostalgia
La “politica della nostalgia” era già stata archiviata. È comprensibile che gli avversari sfruttino ogni ombra, nella stessa misura in cui la retorica della destra crea mostri immaginari a sinistra.
Ma la linea su questo punto è stata spostata in avanti di una generazione e chiamare in causa anche solo tangenzialmente il fascismo, pensando che c’entri qualcosa, denuncia una certa ignoranza sull’argomento oltre che scarso senso della realtà. Il “non rinnegare non restaurare” oggi riguarda semmai la militanza da minoranza assediata e antisistema degli anni Settanta.
La nuova fase ha anche un suo rigoroso canone linguistico. Ad esempio: il termine camerata è ovviamente bandito, mentre è obbligatorio chiamarsi patrioti; come del resto è vietata la parola Paese, sostituita sempre e comunque da Nazione, sempre scritta con la maiuscola anche quando diventa aggettivo.
L’orizzonte ideologico e programmatico della “destra nazionale” rappresentato a Milano è un mix in cui prevalgono riflessi delle alleanze e delle opportunità elettorali di oggi rispetto alle posizioni del passato, tanto dell’Msi che di An.
Appare ancora limitata l’influenza di altre componenti politiche all’interno del partito dato che ancora oggi, nonostante l’enfasi posta da Meloni sulla disponibilità ad aprirsi, si limitano a quelle entrate nel 2018: i Repubblicani Sovranisti di Daniela Santanché e Direzione Italia dell’ex presidente della Regione Puglia, Raffaele Fitto.
Per dare un tono “più alto” al dibattito sono stati invitati come padri nobili grandi nomi del centrodestra berlusconiano: Marcello Pera (sul conservatorismo liberale e il presidenzialismo), Carlo Nordio (sulla separazione delle carriere nella magistratura), Giulio Tremonti (sul sovranismo economico, contro la “globalizzazione guidata dai banchieri” e la delocalizzazione della produzione verso la Cina, con attacchi diretti a Mario Draghi).
Gli interessi economici organizzati più presenti sono stati quelli delle categorie più toccate e infastidite dalla regolazione di derivazione europea o dai lockdown (gestori di stabilimenti balneari e discoteche; piccole e medie imprese rappresentate a Milano dalla Cgia di Mestre).
La crisi Ucraina e l’alleanza a Bruxelles con i conservatori cechi e polacchi (rappresentati a Milano da importanti messaggi video dei rispettivi primi ministri) hanno cementato l’allineamento con la Nato e il riconoscimento di una necessaria solidarietà tra i paesi aderenti all’Unione Europea. La qualità degli interventi di parlamentari e amministratori del partito, come in molti congressi di partito, è stata varia, tra comizietti e presentazioni tecnicamente solide.
Iper-conservatori
L’età media degli oratori, in prevalenza maschi, è stata compensata dallo straordinario colpo immagine del concerto che ha contrappuntato il dibattito conclusivo diretto da una impeccabile Beatrice Venezi, per di più anche nella veste di speaker ideologicamente vicina.
Il messaggio di fondo è stato abbastanza coerente, ricco di declinazioni su molti temi di politica pubblica. Quello di un partito iper-conservatore (su famiglia e cultura) e “produttivista” (su politica energetica, tassazione, protezione dell’economia nazionale) che mentre evoca il riconoscimento di principi liberali tende piuttosto a emulare la destra americana egemonizzata da Donald Trump (anche in un certo ammiccamento a teorie del complotto) e la destra nativista anti-immigrati dell’Europa centro-orientale. Un partito che oggi ha una marcia in più.
Giorgia Meloni è una “patriota” da sempre, ma anche una leader pop. Viaggia bene sui social, a dispetto di chi la rilancia in modo polemico, e al tempo stesso sa interpretare tutti i registri, i tempi e le tonalità del comizio o della retorica congressuale.
Con il vantaggio d’essere a capo, non per interposta persona, di un partito old style, tenuto insieme da forti lealtà, senso della militanza, capacità di coordinamento, assenza di filiere o correnti in grado di sfidarla, oggi beneficiato da un largo consenso di pura opinione. Deve accudire la sensibilità di pochi grandi vecchi e tenere alta la motivazione dei più giovani di alcuni giovani arditi.
Per il resto ha un mandato pieno e una grande libertà di manovra. Al contrario di Salvini, non è andata oltre generici apprezzamenti verso la Russia di Putin. Al contrario di Berlusconi non ha imponenti conflitti di interesse, ma nemmeno le sue risorse economiche.
Mentre eventi come la Conferenza di Milano e le campagne elettorali personalizzate, anche quelle promosse sui social, costano. Oltre che ai saluti romani, i conti del partito e le fonti di finanziamento sono forse in questa fase di crescita tra le questioni a cui dovrà fare attenzione.
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