- Chi non riesce a lavorare, psicologicamente, rimarrà sempre un bambino, destinato a una vita di eterna adolescenza.
- Negli anni Sessanta e Settanta, i giovani erano protagonisti. Protestavano, pretendevano di poter scegliere.
- Oggi, come bambini, accettano passivamente quello che succede, anche se avrebbero molte più ragioni di allora di ribellarsi.
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.» Per quanto da adolescente mi piacesse leggere le parole tragiche di Paul-Yves Nizan, a me i vent’anni sembravano bellissimi.
Trovai subito lavoro nel mondo del giornalismo, proprio come volevo. Cominciai a scrivere per La Notte, un giornale del pomeriggio, e subito dopo per La Gazzetta dello Sport e La Stampa. Guadagnavo abbastanza per comprarmi una macchina nuova, una Golf, e per dare una mano a mia madre. Ero diventato un adulto. Lavoravamo tutti a quei tempi, tranne quelli che proprio preferivano bighellonare.
Oggi di certo non è un fannullone chi non studia o non ha un lavoro (Neet, acronimo di Not in Education, Employment or Training). Lo si rileva dai dati riportati dal Sole 24 ore pochi mesi fa, oltre ai dati Istat e del report Neet Working del ministero delle Politiche Giovanili: un quarto dei giovani dai 15 ai 34 anni non studia e non lavora. E in Italia il problema è molto più serio che nel resto d’Europa.
Peggio di noi ci sono solo Turchia, Montenegro e Macedonia. Anche i Paesi UE a cui l’Italia di solito si accompagna nelle classifiche, come la Spagna e persino la Grecia, vanno molto meglio di noi. In Italia, tra i Neet, quasi un disoccupato su due lo è da almeno un anno. Più di un milione di Neet è in cerca di lavoro. È una crisi che colpisce soprattutto le donne, le più “inattive”, e il Mezzogiorno.
Berlusconi nel 1999 augurava a reti Mediaset unificate buon anno ai più giovani, promettendo loro un lavoro, una «professione che li facesse sentire realizzati« e una casa.
Pensava, probabilmente, ai vent’anni delle ragazze carine che aveva intorno. Negli anni successivi chi sperava davvero di trovare una casa e un lavoro fuggiva all’estero.
Ai miei tempi la prospettiva era quella di un lavoro che ti accompagnasse fino alla pensione. Valeva per mestieri che pagavano bene così come per quelli che pagavano meno. Il giornalista, l’operaio, il dottore, tutti sapevano che il lavoro scelto sarebbe stato per la vita.
L’avvocato oggi si sente di dover aprire anche una pizzeria, tanto per stare al sicuro, come ha fatto il figlio di un mio caro amico. Oppure andrà avanti a lavoretti fino alla morte e alla pensione non ci arriverà mai. E i nonni di domani, dovranno chiedere ancora la paghetta, non si sa bene a chi.
Chi non riesce a lavorare, psicologicamente, rimarrà sempre un bambino, destinato a una vita di eterna adolescenza. Negli anni Sessanta e Settanta, i giovani erano protagonisti. Protestavano, pretendevano di poter scegliere. Oggi, come bambini, accettano passivamente quello che succede, anche se avrebbero molte più ragioni di allora di ribellarsi.
La politica e il governo non mostrano grandi idee. Enrico Letta sembra capire la situazione, forse perché ha vissuto tanti anni in Francia, dove il problema esiste ma è molto meno grave che da noi (14 per cento di Neet contro il nostro 25 per cento). Ha fatto anche delle proposte, ma non è stato ascoltato granché.
Qualche mese fa suggerì di dare 10.000 euro a ogni nuovo maggiorenne, finanziando la misura con una tassa di successione (l’Italia è tra i pochi Paesi in Europa a non averne una).
Questo fenomeno è esploso con la recessione di qualche anno fa e non è mai rientrato. La recessione è finita, ma il dato non è sceso. E dopo due anni di pandemia e con le conseguenze della guerra in Ucraina ancora davanti a noi, questa generazione, umiliata dal dover essere mantenuta dai genitori, rischia una Grande Depressione.
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