Mesto e all’insegna dell’ovvio il trentaduesimo anniversario della strage di Capaci. Le solite passerelle e discorsi banali. Con l’antimafia che in mancanza d’altro punta sul marketing. Nonostante scandali e vergogne i vecchi padroni dell’isola – da Schifani a Micciché e Cuffaro – sembrano eterni
Quest’anniversario si annuncia così mesto che non ci saranno nemmeno le indecenti cariche di polizia dell’anno scorso, gli studenti respinti con la forza mentre cercavano di raggiungere pacificamente la casa dove aveva abitato Giovanni Falcone. Cose che non si vedevano dai tempi del ministro degli Interni Mario Scelba – ed eravamo a metà del secolo passato – quando dal Viminale ordinavano di disperdere i contadini che occupavano (anche loro pacificamente) le terre protette dai campieri mafiosi. Vergogne vicine e lontane in una Sicilia che finge di cambiare, camuffata sotto una crosta di conformismo che la fa apparire diversa e migliore di quella che è.
Quest’anniversario sembra così ovvio che non c’era bisogno neanche di inventarsi un altro feticcio, quello della penna stilografica restaurata di Giovanni Falcone, la preziosa Pelikan Toledo che il giudice teneva nel taschino della giacca quando saltò in aria sull’autostrada il 23 maggio del 1992. È l’antimafia che a Palermo, in mancanza d’altro, punta sul marketing, cimeli da esposizione nell’ennesimo museo o biblioteca o galleria alla memoria, sparse un po’ dappertutto in città e fuori città.
Non si contano più ormai anche i circoli, i tornei di calcetto e di pallavolo e di biliardo intitolati “a Falcone e a Borsellino”. Qualcuno, sull’emozione suscitata dalle stragi, è riuscito qualche anno fa persino a organizzare un “vivere la legalità sulla neve”, sciate antimafia promosse da esagerati finanziamenti pubblici.
Quest’anniversario ormai così lontano segna la vittoria incontrastata dell’antimafia più ammaestrata, quell’antimafia che piace anche alla mafia perché è innocua, grida contro i mafiosi perdenti delle borgate e si piega contro i boss del crimine del livello più alto, quelli che spesso vengono ignorati e qualche volta pure corteggiati.
Questo è anche l’anniversario delle banalità. Fanno diventare clamorosa e inedita la notizia che il traffico internazionale di stupefacenti rappresenta un gravissimo pericolo per l’Europa (bella scoperta!), con un drappello di magistrati latino americani trascinati nella passerella palermitana del 23 maggio da una procura nazionale antimafia che oggi non è certo quella che si era immaginata Giovanni Falcone quando la concepì fra il 1990 e il 1991. Decisamente troppo imbalsamata per piacere al giudice che trentadue anni dopo, a parole, tutti osannano.
I soliti noti
In quest’atmosfera dolcemente scivolosa e ingannevole hanno buon gioco anche per il 23 maggio del 2024 i soliti noti, i soliti potenti siciliani che nessuno riesce a rimuovere nonostante siano lì da trenta, quarant’anni. Sono eterni. Come quel Micciché, il Gianfranco Micciché di Forza Italia, prima dipendente della Pubblitalia di Silvio Berlusconi, poi suo deputato e suo sottosegretario, poi ancora presidente dell’assemblea regionale siciliana.
È finito un’altra volta nel gorgo, dopo le sniffate di coca adesso ci sono la truffa e il peculato con il gatto di famiglia portato dal veterinario in auto blu più le diarie gonfiate del suo autista. Ma, al di là degli aspetti patetici della vicenda, è altro che fa impressione: e cioè che Gianfranco Micciché sia appunto sempre sempre sulla cresta dell’onda, nonostante scandali e polvere bianca, sempre un onorevole di quello che a detta degli storici è il parlamento più antico del mondo.
Viene spontanea una domanda: che alla fine avesse ragione lui? «Na puonno sucare altamente», si è lasciato sfuggire in superbo dialetto palermitano al telefono quando una preoccupatissima collaboratrice lo informava di un’indagine della guardia di finanza. “Ce la possono sucare” non è una battuta o una semplice manifestazione di volgarità, è il senso di impunità che fa parlare così, è il delirio di onnipotenza di quei signori che si sentono – e in effetti sono – sempre padroni di Palermo.
E, proprio a proposito di 23 maggio, non era stato forse sempre Micciché una decina di anni fa a manifestare fastidio per l’aeroporto di Punta Raisi intitolato a Falcone e a Borsellino? «È stata una scelta sbagliata, una regione a forte vocazione turistica non si presenta così a chi arriva e a chi parte, sarebbe stato meglio intitolarlo a personaggi come Archimede».
C’è Gianfranco Micciché, ma in Sicilia ci sono anche Renato Schifani e il sindaco Roberto Lagalla voluto da Totò Cuffaro. Saranno loro, domani, sul palco a fare gli onori di casa per le celebrazioni alla memoria di Falcone. Ecco come è cambiata la Sicilia trentadue anni dopo.
Leggi il blog Mafie, a cura di Attilio Bolzoni e l’associazione Cosa Vostra
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