«Putin è un eccellente imitatore», scrisse Anna Politkovskaja: un personaggio difficile da leggere e decifrare, dal momento che sa indossare abiti altrui, non è nessuno in particolare, e può piacergli tutto.
Corre l’anno 2014, l’Ucraina inizia a bruciare, e il filosofo rumeno-americano Costica Bradatan offre una lettura simbolica dei Fratelli Karamazov, chiedendosi come decifrare i tornanti razionalmente meno spiegabili della storia russa.
Quando ci si imbatte nella coltivata assenza di caratteristiche proprie – annota – significa che ci troviamo in presenza di Smerdjakov, personaggio-chiave di Dostoevskij: l’elusivo servitore, il figliastro-fratellastro in cui è incarnato il male privo di ragione.
Una forza oscura che scorre in profondità nella memoria e nella storia russa, e di cui si nutrono gli eccessi di terrore e repressione, quella forma di crudeltà criminale che a tratti gratuitamente prende forma, spalancando le porte di abissi che si chiamano fra loro.
Non c’è altra spiegazione per il lezzo di cadavere che Vasilij Grossman racconta emanare dai villaggi ucraini forzati alla morte per stenti dalla carestia artificialmente creata da Stalin nel 1932-33, né per la follia delle purghe nell’esercito alla vigilia dell’invasione nazista.
Sappiamo di Putin che è un leader di solida formazione, che agisce secondo una visione coerentemente restauratrice e reazionaria. Dichiara di amare Dostoevskij. Nel tedio sensazionalista dei talk televisivi di queste settimane abbiamo assistito a diversi tentativi di leggere "nella mente di Putin”.
Si tratta di sforzi poco attenti ai processi politici, ma molto indulgenti verso presunte leggi universali di gravitazione geopolitica, più o meno in sintonia con la riproduzione di stereotipi sulla Russia: quel suo essere "geneticamente impero”, variante del “despotismo asiatico” e di altre forme di barbarie, oppure – simmetricamente – vittima di traumi formativi ed invasioni subite.
Non c’è un Rasputin
In realtà, per quanto ci si sia soffermati su figure celebri come Aleksandr Dugin o l’introverso Dmitri Galkovskij, non esiste un Rasputin di corte, un suggeritore della parte di Putin-Smerdjakov.
La verità è che non sappiamo come Putin legga la guerra, quali obiettivi esatti persegua, a cosa dia peso. Possiamo però provare a considerare alcuni elementi di fatto: quando, nel 2014, convocò i quadri del suo partito, quel Russia Unita la cui performance elettorale plebiscitaria destava l’invidia di Silvio Berlusconi, Putin diede loro precise indicazioni di lettura.
Non incluse Dostoevskij, bensì un amico-filosofo dello scrittore, autore di La Russia dei tempi antichi, Vladimir Solovëv. Aggiunse poi due autori più recenti, passati all’esilio dopo la rivoluzione bolscevica, la cui opera è ugualmente solcata da una decisa vena messianica fascisteggiante: l’aristocratico Nikolaj Berdiaev e un pensatore politico reazionario in senso stretto, Ivan Ilijn.
Quest’ultimo si attestava sulla posizione espressa dal Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov circa la necessità di un pugno di uomini dedicati fornire al popolo pane, non libertà.
Nel libro raccomandato ai dirigenti – I nostri compiti – Ilijn racconta cosa accadrà quando, caduto il comunismo, la Russia andrà a pezzi, per poi tornare insieme grazie all’azione di un uomo forte.
Il tema dell’uomo forte è tutt’altro che nuovo nella Russia post sovietica. Già nel 1989, in piena fase di democratizzazione, Andranik Migranyan e Igor Klyamkin in un dialogo pubblicato dalla Literaturnaya Gazeta, accesero una feroce polemica pubblica, sostenendo che una società civile in statu nascendi ponesse il problema di risposte autoritarie (“il pugno di ferro”).
A controbattere fu lo storico e parlamentare democratico Leonid Batkin, che sottolineò come quest’affaccio di idee neo autoritarie trovasse origine e nutrimento nelle letture in inglese di Migranyan, in particolare in Jeane Kirkpatrick, ex ambasciatore americano, noto per la sua tesi benevola verso l’«autoritarismo di destra» – ritenuto passibile di trasformazione verso la democrazia, a differenza del «totalitarismo di sinistra».
Batkin definì «atroci» le tesi sul pugno di ferro, accusandole di tradire le legittime aspirazioni al radicale decentramento del paese e alla sovranità nazionale dei popoli dell’Urss.
Migranyan fu cooptato quale consigliere di Eltsin nel 1993, quando il presidente bombardò il parlamento, ed è tornato a far parlare di sé più recentemente per aver espresso apprezzamento per la figura di Hitler «prima del 1939».
L’impronta di Surkov
Il confezionamento dell’ideologia sovranista avviene durante la prima presidenza Putin, ed è principalmente opera di Vladislav Surkov – ideologo pret-à-porter poi parzialmente caduto in disgrazia.
Surkov è nato in Cecenia sotto lo scomodo nome di Aslambek Dudaev, troppo simile a quello del leader separatista incenerito dai russi. Nel lievito usato da Surkov nella cucina dell’idea di "democrazia gestita” si rintracciano espliciti prestiti intellettuali dal pensiero occidentale, all’anti-pluralismo decisionista di Carl Schmitt e alla vena anti populista di François Guizot, uomo forte del regime orleanista.
Nel corso dell’era Putin il segno conservatore della dottrina di governo viene modulato fase per fase, con andamento "situazionale” – per dirla con un altro politologo occidentale che aderisce a una visione autoritaria e di civiltà, Samuel Huntington: una stretta su tutte le libertà e sui paletti identitari nei momenti di riacutizzazione dello scontro con l’occidente liberale.
Se l’attrito sui campi di battaglia ucraini ha fino ad oggi rivelato la natura clausewitziana di questa guerra come scontro di volontà, la lettura della determinazione del Cremlino non può dunque svincolarsi rispetto all’idea di Russia come parte e specchio dell’Europa: lo sguardo del potere putiniano deve molto alle correnti conservatrici della cultura occidentale.
Non fu grazie alla vittoria sul campo di battaglia delle democrazie che l’autoritarismo sovietico venne sconfitto: esso venne sbancato economicamente e politicamente, fin quando anche l’ultimo soldato non trovò più motivo per sparare sui dimostranti.
Il giorno dopo ci rendemmo conto che i sovietici avevano letto tutto. Non i trattati di Realpolitik scritti dai guerrieri della Guerra fredda. Non Zbigniew Brzezinski, propugnatore di politiche estere assertive ai danni di Russia e Cina, proprio a partire dall’Ucraina.
Non John Mearsheimer – oggi acclamato da chi giustifica l’invasione russa per aver additato le responsabilità della Nato. Teorico del "realismo offensivo”, all’indomani della fine del bipolarismo Mearsheimer sosteneva la proliferazione nucleare dotando la Germania dell’atomica.
Il new thinking sovietico non poggiava sui testi in voga nelle scuole di guerra dell’occidente, ma su letture dissidenti, sulla peace research e gli studi sul disarmo.
Guerra lunga
Oggi le difficoltà incontrate dall’offensiva russa, il volume delle armi affluite in Ucraina, e il tenore delle relazioni diplomatiche ci parlano di una guerra che ha ogni probabilità di essere lunga.
L’esercito russo appare vulnerabile, e questo desta l’attenzione di coloro che ritengono che una guerra ad alta intensità possa effettivamente essere combattuta e vinta.
La logica della deterrenza e dell’escalation, per quanto paradossali, sono piuttosto evidenti nel trasferimento di armi e nel rafforzamento delle difese sul fianco est della Nato.
Il sistema anti missile Patriot è capace di intercettare l’80 per cento di attacchi, ma per la stessa scarsa distinguibilità fra difesa e offesa propria delle dottrine del realismo offensivo, ogni rafforzamento delle difese che ci rende meno vulnerabili trasmette al nemico l’intenzione che, grazie a minori perdite, in effetti mettiamo in conto di poter attaccare, e dunque contribuisce all’escalation.
Considerato che già esiste, l’occidente si trova in condizione di significativa superiorità militare rispetto alla Russia, ma quanto costituisce abbastanza? Quale soglia di capacità militari è sufficiente finanziare per raggiungere la sicurezza?
Il 2 per cento del Pil rischia di assumere un valore talismanico. I riflessi della corsa al riarmo non risparmieranno implicazioni sulle dimensioni cyber, batteriologica, chimica e nucleare.
A Princeton hanno simulato gli effetti di uno scambio nucleare tattico (le "atomiche piccole”), disegnando uno scenario che prevede circa 90 milioni di morti. Al tempo stesso, restando su intensità convenzionali, un conflitto che si protrae nel tempo ha storicamente alta probabilità di coinvolgere i paesi limitrofi, cioè noi stessi.
Putin contava sia sulle divisioni domestiche ucraine che fra le democrazie europee, e invece ha trovato fronti allineati e relativamente compatti nella risposta all’aggressione.
In nome di questa compattezza d’intenti, e dell’idea che "non è il momento per le anime belle” alla luce del tacito, indimostrato assunto, che la tempesta passerà e tutto verrà riassorbito, vediamo avanzare giorno per giorno un repertorio di cui lo smerdjakovismo si ciba volentieri, a partire dalle foto in posa sui giornali, di bambini e bambine ucraini con mitra e lecca-lecca, enfatizzate in spregio a ogni codice di tutela dei minori e di denuncia dei bambini-soldato.
Mentre circolano video agghiaccianti sulle punizioni pubbliche inferte dai miliziani nazisti ai civili, abbiamo dato libertà di inneggiare al battaglione Azov e di comprarne le magliette su Amazon.
La lista delle domande non poste, che a quanto pare non è il momento di fare, si allunga ogni giorno, mentre prende piede l’atteggiamento sentenzioso di chi arruola ogni critica con il nemico (disfattisti da divano! narcipacifisti!), un cliché polemico tipico della retorica bellicista più macchiettistica (panciafichisti!).
Peraltro, tanto fervore non sembra riverberarsi sui pallidi visi dei comandi militari, assai più saldi nel comprendere le difficili sfide di gestione dell’escalation in corso.
Non dovrebbe sfuggire come il sistema-Putin tema come la peste le mobilitazioni per i diritti politici, civili e sociali. Lo spazio per la politica non si esaurisce nel riconoscimento di vittima e aggressore, ma si nutre di dibattito e attivismo dal basso.
Non aderire ai toni bellicisti, mobilitarsi per fermare la guerra non significa equidistanza. Se questa è una guerra compiutamente europea, e la Russia si rispecchia nell’Europa, la partecipazione democratica che Mosca teme.
Diversamente da quanto sostiene Mearsheimer, non è genericamente "l’occidente” ad essere il principale artefice di questo disastro, ma uno specifico, cinico modo di leggere la politica di grande potenza che l’occidente contribuisce a produrre, e di cui il misantropo Smerdjakov è avido lettore ed interprete.
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